il corpo scritto del mare

Chi naviga viaggia, chi viaggia passa, chi passa parla, chi parla cerca, chi cerca trova, chi trova scrive, chi scrive trova un corpo.

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// Viaggio nello Stretto 2018 // Alfonso Femia e Giorgio Tartaro in viaggio sullo Stretto con 10 persone, dai Mediterranei Invisibili

Lo Stretto è troppo carico di peso simbolico per essere delle sole comunità insediate, è troppo carico di bellezza per essere un incidente, è troppo solcato per essere una cartolina, è troppo variabile per essere un taglio. È troppo inquieto per essere metafisico.

E’ l’attraversamento da un punto di un triangolo a un punto di una linea che corre per tutto uno stivale a forma di Italia. Questo Stretto si attraversa con navi, scafi, zattere e tutto il vintage della navigazione; si attraversa alla meno peggio senza troppa modernità, si attraversa nel pensiero di una andata e un ritorno, senza quel Ponte che appare e scompare e che attende solo lo sfondamento della frontiera dell’Ologramma.

Le navi che ancora si vedono sono opposte alla paura di restare da una delle due parti dello Stretto e marciano anche all’indietro delle loro motrici portando l’incontro delle tante parole

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Dalla Pi alla Zeta: dialogo immaginario fra due antichi architetti un po’ delusi da Messina

Ecco, Gino P. da una parte e Antonio Z. dall’altra, in mezzo un’altra Galleria, un passaggio coperto da qui a lì, dal Consolato del Mare all’Immacolata di Marmo.

In città ultimamente girano tutti in quello sputo di centro densificato di bar, tutti negli stessi piccolissimi posti: sarà la crisi, sarà la pigrizia ma gli abitanti girano su un tappeto di strade e palazzi, grandi quanto il plaid del tuo divano. Si stipano in strada consumano e parlano molto, per non raffreddarsi e farsi compagnia stanno vicini e riempiono gli spazi vuoti del centro città.

Giri e ti pare di vedere sempre le stesse persone, giri e rivedi le stesse incompiute e gli stessi posti un po’ sprecati. No, così per dire, – ma quanti anni sono che diciamo sempre le stesse cose? Aspettiamo di fare la cura, raccontiamo la favola del recupero; ma gira vota e firria scuotiamo la testa mugugnando un po’, ma neanche troppo a lungo, perché poi: -“Dai sbrigati, dobbiamo andare”-.

In giro tra i soliti bambocci ex bimbominkie, digito-lesti accoppiati o scoppiati alle caratteristiche ragazze arancine con i piedi, irrompono nuovi e vecchi coatti con teste modellate da rasature  e pettinature non inseribili in nessun modello di casco  da motorino. Loro sono quelli che animano il disdegno delle Stra/fighissime vaganti, alte sui tacchi quanto la somma della statura della loro madre sommata all’altezza dell’amante del loro padre.

In questo carosello di frantumi di bottiglie di birra e razzi di sughero avanzati delle stappate di mezzanotte, emerge tutto quello che non si è fatto,e di cui non sai perché prima non si era fatto e soprattutto perché non lo stai facendo. Risale tutto a galla e così tra la folla sono risaliti Gino P. e Antonio Z., uno a un capo della galleria e uno all’altro capo, uno a sud e uno a nord, uno in ombra e uno in luce. Uno arrabbiato da tanto tempo,  perché qualcuno spettegola in giro, e dice che con il suo, progetto del palazzo Municipale avrebbe causato il primo debito fuori bilancio, e poi perché aveva begato e tolto l’incarico al primo progetto prescelto, quello di Calderini architetto.

L’altro invece, Gino P., era quello che sembrava placido e tranquillo, sarà stato per lo stile composto che aveva dato al suo palazzo, sarà stato per le fontanelle d’angolo asciutte come le fonti del deserto o per la strada coperta che tagliava l’unità dell’isolato, insomma un po’ per questo e un po’ per quello Gino P. era molto rilassato; forse un rilassamento dovuto anche a quell’acronimo che campeggiava sugli angoli del  palazzo. Sì, Gino P. si tranquillizzava guardando la scritta Inps, e pensava al bella sigla  che avevano inventato, quella di un Istituto Nazionale  di Previdenza e Sociale, roba e parole che oggi sembrano quasi rivoluzionarie: -“Compare…cambia verso! Ancora con lo statalismo previdente? Archeologia da rottamare.- Così gli schiamazzava sgommando il rappresentante del popolo, gettando una voce dal coupé sportivo.

I due architetti, estranei alla città, provarono prima a costruirla e dosarne i monumenti poi si assopirono facendo un passo indietro, ora dopo quasi un secolo si fissarono per il fatto che volevano proprio cambiarle verso. Si posero ai due capi del passaggio, dietro i bei cancelli di ferro battuto. Si guardarono a lungo ed erano sempre lontanissimi, sembrava la scena di un duello urbano, un thriller in centreville.

Il primo gridò all’altro, “Ehi Buondì! Lei, L’Esimio architetto Peressutti!”

– “Questa città ha troppa “Lissa”, come si dice qui, e quando non ha la lissa, piccona e cancella quello che trova lungo la via…

– “Prima si sono trastullati per decenni dal 1914 al 1935 per costruire quel Tempio che avevo progettato come Municipio, poi con sapiente furia Gesuita e lasciandomi di stucco si sono sbarazzati del collegio e della chiesa di S. Ignazio che avevo costruito in piazza Cairoli.”

L’altro Rispose:- “Ma sa, Carissimo arch. Zanca mentre perdevano tempo e preparavano la costruzione della casa delle lentezze, ( ehi tranquillo non era contro di lei, fanno ancora così, si aspettano sempre svincoli, porti, strade e vie donblasco, Piloni etc! ), vidi issare sul vostro Classico palazzo simboli ittici di bestie dalla bocca larga, immagini esplicite della vostra idea figurata dei messinesi; era il 1926 ed  io  costruivo accanto questo palazzo attraversabile, con zampilli settecenteschi a ogni spigolo. Due palazzine unite da questa Galleria con una faccia che guarda l’altra,  tanto che  partendo dal vostro lato voi sareste arrivati al mio cospetto, così come la mia persona incamminandosi sarebbe giunta sin da voi. “

Nulla e poi Nulla, Niente di Niente, il cancello è sempre chiuso; “Vi guardo da lontano e per parlarci dobbiamo rigirare intorno all’isolato; – Illustre architetto Zanca, insomma cambiamo verso e apriamo i cancelli, cambiamo tutto e passiamo, il verso è quello di apertura e quello dei cancelli, però per favore senza fare porte girevoli con rotazione bloccata sui poteri e le competenze.”galleria-inps-631x420

Terra Bruciata

Oggi 28 ottobre al nostro  Studio in via ghibellina 96/b liberiamo i tavoli, pannelliamo le librerie e Apriamo a tutti per una mostra di fotografie che è un progetto, un incontro visivo e corporeo,  un impegno.

La premessa: “durante il primo pomeriggio dello scorso 9 luglio un violento incendio è scoppiato lungo le pendici del monte San Jachiddu. Le fiamme sono divampate tutta la notte riducendo in cenere buona parte del versante nord del parco ecologico dell’omonimo Forte. Decine di ettari di bosco e macchia mediterranea sono , bruciati, come le piccole strutture ricreative del Parco, mentre le creature selvatiche sono morte o sono state allontanate dalle fiamme. A pochi giorni di distanza il fotografo Gerri Gambino e la filosofa Giusi Venuti hanno percorso quei sentieri (…)”

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La poesia che prese il posto di una montagna.
(Wallace Stevens, “The Poem that Took the Place of a Mountain” The Collected Poems. 1954 )
Ecco, parola per parola,
La poesia che prese il posto di una montagna.
Egli ne inspirava l’ossigeno
Persino quando il libro era rivoltato sulla polvere del suo tavolo.
Gli ricordava di come aveva sentito il bisogno
Di un posto dove seguire una sua direzione,
Di come aveva riordinato i pini,
Spostato le pietre, e di com’era avanzato guardingo fra le nuvole,
Alla ricerca di un panorama appropriato,
Dove sentirsi perfetto in una compiutezza inspiegata:
La roccia ideale dove la sua inesattezza
Gli avrebbe infine dischiuso la vista verso la quale erano protesi,
Dove lui avrebbe potuto coricarsi e, guardando il mare in basso,
Avrebbe saputo riconoscere la sua casa, incomparabile e solitaria.

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Così vicino così lontano, vedere la città

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Di tutte le arti quella di saper vedere è la più difficile” (E. De Goncourt)

Che siano le foto della tua vita privata, della vita sociale o dei luoghi del cuore, del paesaggio o della tua città, non si fa altro che sgranocchiare immagini, spesso le ingoiamo senza masticarle tra un beep e un Wup, di sapore non ne vogliamo proprio sentire cosi che le sputiamo prima di vomitarle. Le cause? Spesso siamo al rigetto per troppi contatti social,  troppa messaggistica, troppa simultaneità;  troppe figurazioni per semplificare qualsiasi forma di astrazione che potrebbe far sforzare il pensiero e provocare l’allenamento alla concentrazione;  la vita visiva  ogni giorno è rimpinzata di foto più di un rotocalco per bulimici,  una foto come premessa, una come tesi, una a commento e poi una come nota a piè di pagina, una come smentita e poi una a contro smentita, e poi  e poi… ancora e ancora…

Le foto della città fisica, magari della tua, sono strane, ossessive ripetizioni di cartoline, restituzione del già visto, ricercati glamour per collezionare like, poi qualche volta le foto diventano meravigliosa trivellazione di risorse dai pozzi abbandonati o ricostruzioni sorprendenti dell’invisibile per rinnamorarsi dei luoghi.

Le città hanno sempre avuto bisogno non solo della loro vita interiore, ma anche di qualcuno che le raccontasse in giro, le dipingesse, le descrivesse ai forestieri e spesso anche agli stessi abitanti così pressati dalla vita e dalla morte da essere costretti ad attraversale ed usarle senza neanche poterle guardare da fuori, oppure cosi abituati a guardarle ogni giorno distrattamente da non saperle vedere.

Alcune semplici immagini zenitali del nostro territorio e della nostra città poco tempo fa hanno destato meraviglia, foto fatte da droni senza anima e funzionali alla tecnica del racconto delle gare ciclistiche o a quelle del racconto della sorveglianza di polizia del G7, hanno toccato le nostre latitudini e le corde del nostro immaginario.

Eppure da anni smanettiamo senza sosta su Google maps o su Google Earth; zoomiamo sugli smartphone e ci alziamo in volo dal quel cacchio di scrivania dell’ufficio; planiamo su viali e i boulevards di posti vicini e lontani cercando quell’impossibile “non luogo” dove si svolgerà quella fantastica festa del sabato; o cerchiamo la casa dell’amichetta di tua figlia che ha deciso per scelta di famiglia di costruirsi la casa in quel famoso poggio dove pure il famoso “signoruzzu ha perso le scarpe”.  Tecnologici e tattili planiamo e navighiamo, potenti più di Batman e Tim Burton però poi precipitiamo sulle terrazze di Lilla e Nino, finendo pure dentro la lettiera del loro gatto Sciollero, vediamo con il Gps pure i loro slip e le canottiere appese ma ogni volta che vediamo una bella ripresa TV o una foto di chi vuole raccontare la nostra città ci meravigliamo e diciamo, Mizzica e questo dov’è?” 

Niente, tutti questi anni di overdose d’immagini sono stati inutili, più il territorio e a portata di click meno capiamo dove ci stiamo infilando e se stiamo vedendo, più zoomiamo e meno guardiamo. Quindi benvenute immagini che hanno fatto scoprire che piazza Castronovo è tonda e che il PRG post terremoto ha fatto costruire gran parte della città a scacchiera , e ben venga che si siano scoperte  le curve sinuose delle coste del messinese o la linea mossa e accidentata delle rocce joniche e le geometrie sontuosa del Teatro greco romano di Taormina.

Ma insieme alla visione fatta dal drone, quella lontana che restituisce una sintesi quasi sempre bellissima, c’è n’è un’altra, la visione ravvicinata che dettaglia la ricchezza dei particolari, che inganna l’occhio e la mente. È bello il paesaggio urbano e territoriale della città dello Stretto, belle anche tante architetture viste da vicinissimo: la ricchezza dei materiali, le forme urbane del decoro dei gessi e cementi, delle figure apotropaiche piazzate sulle finestre e i portoni. La visione ravvicinata ci fa vedere gli stacchi volumetrici nei dettagli di alcuni buoni maestri dell’architettura passati da qui per ricostruire la città azzerata;  ci permette di osservare  i piacevoli  i tentativi del professionismo locale di applicare le arti all’edilizia condominiale del boom messinese degli anni 50 e 60 fino agli albori del 70; da vicino appare pure  chiara la trama e il rigore delle textures delle prime forme edilizie a basso costo degli istituti per l’edilizia popolare o  degli elementi materici di alcune strade.

Poi però ci sono le visioni intermedie, le più crude: quelle spesso dicono le verità;  altro che piercing urbani e tatuaggi, spesso è roba da splatters . La città non è una veduta e neanche un vetrino al microscopio, funziona ancora benissimo dalla grande distanza, funziona egregiamente a distanza ravvicinata, perchè l’occhio può selezionare; ma poi, perché non funziona alla distanza intermedia? Quella dello sguardo delle relazioni tra parti e quindi delle relazioni della vita; da lontano siamo tutti belli e tutti amici, da vicino forse ci amiamo o ci scanniamo, ma alla distanza intermedia vediamo ferite cucite alla meno peggio, coltellate reiterate, polveroni e macerie nascoste sotto il tappeto, decapitazioni e mutilazioni, innesti cyborg, poltiglie urbane, impianti tecnologici e domestici vomitati sui balconi e sulle facciate, piazze sfigurate, “tagliate di faccia”,  protesi malmesse e sprangate squadriste su corpi urbani già deboli.

Le foto della città raramente annunciano un tempo, più spesso lo arrestano, sciogliendolo nella nostalgia del com’era, oppure sciogliendolo in un acido del presente.

Occhi ne abbiamo? Ma per usarli dobbiamo vedere e  quindi pensare, insomma serve allenamento a vedere e anche a immaginare. La visione è la forma di conoscenza principale della nostra cultura, ma la distanza e la scala possono cambiare il senso  delle cose. Nel film Blow up di Antonioni  l’ingrandimento fotografico è un metodo e farà scoprire a Thomas un delitto, insomma anche qui tra visioni urbane cosi vicine o cosi lontane , ingrandendo le foto……..si scopre un delitto come in “Blow-up”, spesso è il delitto del paesaggio o delle deboli tracce della qualità  urbana.

Socrate insegnava a Teeteto che non vediamo perché abbiamo gli occhi, ma abbiamo gli occhi “per vedere”,  per narrare e pensare  la città ricominciamo a fare delle verifiche per vedere alla giusta distanza.