La prigione senza muri

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Cara signora M.

La foto di una prigione non è di per se colloquiale, piuttosto una lama tagliente, dura come un vetro spaccato; l’unico conforto per me, e spero per Lei che mi è amica, è che questa cartolina non la invio dalla prigione ma dal di fuori di essa. Si chiama Carcere di Gazzi, come il Toponimo del villaggio, conosciuta da tutti nella localizzazione urbana, sconosciuta da tutti nel racconto delle immagini.

La scelta di usare questa immagine per inviarle notizie sulla nostra città non è né cinica né impietosa, eppure so che è singolare. L‘ho scelta perche nella foto si ferma l’istante precedente al suo uso. Lì l’unico corpo recluso è quello muto della costruzione. Tristemente in attesa di prigionieri, ogni finestra rimanda all’anonima partitura e alla serie ripetibile di tanta architettura razionale europea, ma ogni durezza berlinese o anche littoria stempera tra gli elementi naturali del suolo e del cielo. Il nuvolato pennellato sull’Aspromonte sullo sfondo, il contorno netto del campanile della chiesa di quartiere, e infine un suolo fatto di zolle che accoglie nella terra agricola il perentorio edificio ancora senza suoni di sbarre e catene, formano un mondo ancora ipotetico. Infatti come vedrà  bene, due solchi partono dall’interno e si allontanano nella campagna, perche questo carcere ha un desiderio di libertà  e non ha ancora muri.

quis custodiet ipsos custodes?

Voglia custodire questa cartolina insieme ai miei

D’istanti saluti