il Touch litologico

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Tolte le scarpe chiuse e tolte le calze rimani coi piedi nudi e li poggi sulla terra.

La terra dei litorali qui intorno è un libro braille per i piedi nudi, ogni passo pesta le pietre e i sassi, affonda in sabbie fini e grani di rocce sminuzzate e ciottoli lisci. Una mattina ho fatto un giro a piedi nudi in riva allo stretto, cominciando a gettare i primi passi nudi sullo Jonio e prefiggendomi di arrivare sul Tirreno, la passeggiata dei due mari è un viaggio salino e terroso liminare e terminale, un’esperienza litologica che vive di improvvise mancanze ed erosioni.

La scrittura della terra ha codici e alfabeti che i miei piedi leggono da autodidatti sulla riga morbida della costa, ogni fiumara che intereseca il mare è un periodo del discorso, un procedere a volte coordinato altre volte subordinato, ci sono anche salti bruschi, no forse  è solo un susseguirsi smisurato di incidentali.

Il flusso secco delle fiumare  senza più il portato solido è come un discorso aspro e impoverito, fermato sulla ritrosia dell’uscio. Le frasi stanno lì  senza nuove parole e senza variazioni, erose da movimenti esterni, dalle onde rabbiose e dai venti decisi che stanno oltre l’uscio.

Ogni passo va fatto senza guardare, e più t’incammini e prosegui, più il tuo piede sente che le sabbie fini e aeree si modificano, si raggranellano a zone e alcune aderiscono appiccicose ai tuoi piedi, le altre scivolano e si fanno impronte della tua andatura, più cammini da cieco e più riscopri il tuo tatto primordiale.

Pace,Papardo,Sant’Agata, Ganzirri, Torrefaro, Capo Peloro, Torrebianca, Mortelle,Casabianca,Tono, Mezzana, Acqualadrone, Spartà, Rasocolmo, sono i nomi dei miei passi; ogni variazione minima dei litorali sotto i  piedi è un link che  parla di una vita diversa arrivata dai compluvi.

La scrittura sui litorali è antica ma spesso sparisce inghiottita dalla mareggiate, spesso sprofonda rapidamente sotto i mari. Poi riemerge e ritorna con la mareggiate rimescolata nelle sue lingue e nei suoi alfabeti. Ogni passo fatto è stato cieco e immerso nella forma dell’impronta sulla terra: vesto il piede metto la scarpa e corro per le strade; adesso il mio tatto è solo l’indice che tocca lo schermo  e poi il pollice che gli si avvicina per allargarne la visione,  è il touch di ogni giorno.

in presenza

Girando per luoghi recintati e staccati dai passaggi frequenti e dagli sguardi quotidiani si possono vedere i cambiamenti delle cose. Alcuni luoghi sembrati manuali di città nuove o delle architetture-manifesto delle diversità dal passato, appaiono  trasfigurarsi nel loro senso e nelle loro dichiarazioni d’intenti.

Qualcuno dice: – è il tempo che passa bellezza -, altri ancora dicono: – è l’uso delle cose miei cari -, ma si forse è tutto insieme, è la vita tutta che entra e scompagina l’astrazione, rovescia  il  mondo e ricomincia una nuova vita intorno a quelle stesse cose.

Con tempi differiti, in giro si sono sparsi frammenti di modernità, repliche e correzioni di esperimenti d’avanguardia, adattamenti locali, ma anche dogmi cristallini. Da quegli esperimenti trascinati dagli albori del novecento fino al tempo del duemila d.C ci portiamo quella dirompente novità di intere facciate di vetro, quella novità in cui il corpo costruito si lasciava attraversare dalla luce, quella che era un apparire nudo del dentro attraverso la luce del fuori. Senza le difese delle pareti opache o delle soglie porose l’interno oggettivamente appare, riversato dentro i paesaggi costruiti o naturali e partecipa senza troppo pudore la sua esattezza perentoria.

Ritornare è un po’ morire o forse morire è solo vedere, quello che era un diaframma cristallino tra corpo ambientale e corpo architettonico lo ritrovo opaco e con un’ ispessimento quasi solido della coltre distratta di una pittura sul vetro. Cambia di poco la pelle e cambia il corpo, il nudo si copre e l’esterno non penetra l’interno. In quest’astensione di carnalità tra il dentro e il fuori  l’edificio come un sasso opaco ricorda quell’uomo invisibile del romanzo di Wells in cui la conclusione tragica è proprio la perdita dellì’invisibilità e il ritorno al corpo solido, un arrivo ma anche il punto di crisi originario. “ E così, a poco a poco, il bizzarro corpo invisibile prese consistenza” e nel momento in cui prendeva consistenza perdeva la sua “fodera quella delle cose invisibili che sostengono le cose visibili”.

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Crediti disciplinari vari ma qui per ultimi tra le mani il romanzo di Herbert George Wells L’uomo invisibile, edizioni Mursia del 1966 e Il visibile e l’invisibile  di Maurice  Merleau Ponty, ripubblicato da Bompiani nel 2007

 

Piatti di famiglia

Ottobre ed è tempo di vendemmia, magari lontano dalle nostre case e dai nostri passi; si vendemmia in campagne mescolate con residui di città e tenute in piedi da mozziconi di “armacie” franate, lo scirocco è appiccicoso e le temperature d’agosto stoccano il vino nuovo e lo concedono già liquoroso. Ho cercato il palmento, quello con i mattoni sbrecciati, al suo posto ci hanno messo una palazzina ubriaca e già un po’ tumefatta. Ho chiesto agli abitanti che fine ha fatto tutto il materiale che c’era dentro: – delle botti non sanno niente, le travi di castagno le hanno bruciate, le damigiane con i cesti intrecciati le hanno vendute all’artista, quella che abita lì d’estate, la forestiera.- 

– “Ottobre e’ tempo di vendemmia”, – così da anni legge e detta la maestra Busacca in tutte le scuole della nazione in cui si è spostata. Sono dei dettati pronunciati con enfasi,  convinzione e rammarico. Così,  ovunque nelle scuole primarie si  celebra un’Italia contadina che già era lontana  da me tanti anni fa,  sconfitta oggi da fatti simulati e da Playstation, dalle Wi e dalle Tv, dai consumi, dai Tir e dall’istantaneità delle cose. I contadini, semmai ancora esistono, stanno al parco giochi o nei parchi attività; nelle fattorie didattiche hanno un loro ruolo,  oppure stanno nell’azienda B&B e ti ospitano per una settimana tutto compreso. È tempo di vendemmia nei quaderni scolastici molto touch e nelle azioni motorie molto Wi.

Il vino non è popolare quanto i mojito delle serate danzanti delle maestre, ma ancora celebrandolo se ne parla. Del mio tempo di vendemmia ho visioni intermittenti, provengono da visite in campagne amiche, visite già all’epoca un po’ didattiche: vino, mosto, bolliture, “pappacini”, uve piccole brutte e nere, fermenti e acidità, strati melmosi dentro vasche di cocciopesto e macine avvitate su tronchi di castagno filettato. Pestare era solo la fine, raccogliere era il tempo di tutta la giornata. Saro e Alessandro che andavano su e giù, le sorelle gemelle Rosa e Pina,quelle basse e nere come l’uva, don Ciccio e sua moglie che stava sempre a mescolare; l’afflusso rapido di figure come apparizioni e di scomparsi come argomenti, gente a giornata,  presa ad ore, venuta da colline lontane o dalle marine opposte. Di tutte queste persone non ricordo nessuna allegria ma solo una moderata energia per portare a termine le giornate della fatica e raccogliere  poi il premio  del buon mosto insieme ai denari.  Il contatto tra la vendemmia e la città, tra le giornate sacre a Bacco e il ritorno dentro i condomini era il bottiglione di mosto bollito, una specie di melassa già ristretta e purificata dalla cenere dei sarmenti di vite, oppure a chi gli andava bene il giorno dopo, era il piatto del servizio di porcellana buono,  quello già conzato di mostarda.

Il ruolo, l’importanza e lo status connaturavano il dono e la bellezza del piatto.

Dalla campagna alla città sono arrivati negli anni piatti di tutte le fogge, ceramiche e porcellane dipinte o smaltate, piatti smerlati e gentili, quelli dai contorni netti o queli variegati e dozzinali, i piatti piccoli da dolce o i tondi grandi quanto la mano allargata; per le famiglie numerose interi piatti da portata su cui ci stavano due mani.

Nel condominio di città, nel tempo di vendemmia, si era pronti a barattare piatti di mostarda da un piano all’altro, da una porta all’altra porta. Si  osservava il tremolio del budino di vino , la consistenza e la trasparenza, la ricchezza della conza, le nocciole o le noci, il gheriglio sbucciato o quello tagliato. Si pontificava se l’agrume era candito o grattato acerbo col gusto amarognolo. Lo scambio dei piatti è un gioco libero ma con dei punti fermi, patto chiaro tra chi vuole le spezie e chi le evita, tra chi passa piatti impolverati dagli aromi di cannella in nuvole e chi afferra quelli con le scaglie intere di corteccia annegate nel rosso scuro del mosto. Ogni piatto è una famiglia, una promessa e un invito, un’esposizione ed un commiato. Un giorno sul buffet di nonna trovai tanti piatti di mostarda tutti differenti, sia per il colore dei bordi sia per quello del budino, contai i pezzi di un “servizio da vendemmia”: le settimane passavano e ciascun piatto veniva intaccato dal cucchiaio che raccoglieva la mostarda,e così ritrovava e scopriva i decori floreali dei piatti, l’ornamento  all’inglese o quello alla francese. Tutti i piatti sparigliati stavano sul piano lungo in camera da pranzo: erano presenti tutte le famiglie con il loro piatto:  la storia di un condominio in tempo di vendemmia  non ricorda nessuna allegria particolare, ma solo una moderata energia nell’assaggio  e poi dopo nel raccogliere ciascuno il proprio piatto, salutare e andare via.