Le applicazioni dei nonni

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Per assecondare la natura di quella materia, prima rovente e morbida, poi gelida e stabile, lui inseguiva il fuoco e forgiava il ferro: stringeva le barre infuocate, le batteva, le torceva e le cesellava, le increspava e le traforava. La forza del metallo resisteva e poi cedeva negli stati successivi della materia forgiata: a colpi di martello nascevano riccioli, spirali e risalti, foglie taglienti e punte acuminate, rami fluenti e corazze ricamate, barre tortili e unghiate profonde; polveri e schegge abbandonavano la forma.

Aveva una figura di uomo esile e chiaro, forti mani nervose, ed era un misto inconciliabile tra un maestro ricamatore dal passo lieve e un alchemico forgiatore di metalli proveniente dall’arcaico mondo di Vulcano. Usciva da casa con il suo paltò e il suo cappello dalle falde perfette, sorprendendo tutti lavorava sempre in camicia, con le maniche arrotolate e l’immancabile cravatta scura dal nodo stretto, un grembiule grigio con la pettorina, gli occhiali da lavoro dalla montatura nera e con le lenti graffiate dai mille lapilli. Ero davvero piccolo e per sue rare concessioni l’avrò visto poche volte nei suoi strani laboratori allestiti presso le ultime famiglie committenti della città. Famiglie e storie che lo accoglievano interamente con tutto il suo lavoro, con tutti i suoi apprendisti, le sue incudini e i suoi martelli, con le pinze e i suoni sordi e vivaci che annunciavano al mondo strane meraviglie.  Le case cantiere, rispettosamente chiamandolo maestro, custodivano per caso e per decisione quasi tutto il suo mondo immaginario. Erano custodi del suo fuoco, delle parole fermate sulle superfici dei metalli e nei corpi solidi e pesanti della materia; case cantiere e custodi temporanei di scintille, desideri, follie e realizzazioni.

Da grande ho cercato tra le sue poche cose rimaste, fuggite alla velocità della sua morte e all’umana dimenticanza. Ci sono ancora gli occhiali graffiati,  e guardandoci attraverso si ha una visione rugata e cretta della realtà; ho trovato anche dei frammenti di forme, i pezzi di alcune maniglie, i pezzi  unici per mobili importanti; riccioli e spirali, qualche ramo attorcigliato con i pampini e qualche animale venuto fuori dal mondo simbolico, tutto arrivava dall’estremo mondo del pittoresco e dalle nature secche del sud; ecco quindi lucertole e serpenti nati dall’unione del ferro caldo e del sangue freddo dei rettili.

Quegli animali un po’ cattivi, fermati proprio nella mossa dello scatto e del guizzo agile poi erano  come raggelati nel ferro duro. I miei occhi di bambino li avevano visti prima come animali disegnati sui fogli, e lì vivevano nel mondo bruno argento e chiaroscurato dalla grafite, apparivano prima della loro materia solida e del loro gelo tattile e ferroso.

Gli animali, disegnati sui fogli di carta Fabriano, vivevano accanto ad appunti scritti e incroci complicati di operazioni aritmetiche: misura, riduzione e scala, componevano il foglio per isole dense che saturavano lo spazio bianco. Erano pensieri serali e domenicali buttati giù sul tavolo grande, lo stesso che fino a poco prima la nonna usava per disegnare sul tessuto duro d’appretto le tracce per i ricami; erano dei  disegni paralleli e che  poi forse si sarebbero uniti all’infinito nella vita di quei vecchi sposi. Lei tracciava grandi tralci molli e foglie arzigogolate, tempeste di grappoli e calligrafiche iniziali. Lui disegnava misteriosi draghi con lingue scattanti, fermava le mosse dei rettili e articolava le connessioni seriali di estese ragnatele, incideva abbozzi di scene fra l’umano e il sacro per le formelle di rame, erigeva medaglioni cifrati per indicare cancelli e appartenenze.

Su quel tavolo rettangolare passavano senza troppa attenzione e autocompiacimento le arti dei miei nonni, quelle arti applicate che accompagnavano le forme e la vita senza risuonare di troppo spiegazioni, di significante o di significato.

Alla base di quello stesso tavolo da lavoro, in un piccolo vano comodo per i bimbi, ho passato lunghissimi pomeriggi; come in tanti tavoli degli anni quaranta il sotto piano poggiapiedi diventava un buon nascondiglio, era la mia tana di legno fatta di due pareti, un pavimento e quello strano tetto continuamente e sonoramente  segnato e inciso dagli ornati continui degli avi.

Il nonno disegnava sempre, chiaroscurava tutto, incrociando le trame e i mille puntini tempestosi che martellavano il foglio, quando uscivo dalla tana sotto il tavolo e lo guardavo piegato sul foglio con lo sguardo concentrato, gli occhi allungati e i baffi grigi, aveva tra le mani le sue matite cortissime e sempre appuntite. Le sue matite erano corte quanto un pollice e correvano velocemente tenute dalle dita, a volte non si vedevano neppure, tanto sembravano riassorbite nelle pieghe della mano, così che pensavo che le sue dita disegnassero senza bisogno di nulla e tracciassero linee dure e rami morbidi per poi correre e ombreggiare le figure. Sì ,i bambini si adattano facilmente alle favole e quel nonno costruiva strani mondi di favole non sempre comprensibili. Su quei fogli guardavo le strane figure perfette, misurate dal righello e iscritte in geometrie impeccabili, erano figure paurose per un bambino, ma anche tranquillità domestiche e familiari. Fogli pieni di chiazze scure, popolati di creature della terra e del cielo. Lucertola e serpe, zampe da rettile e mantelli di squame, di lato convivevano uccelli rapaci, in alto, centrato un enorme drago alato , con la lingua saettante, tralci infiniti di rose: era paura e vertigine della forma.

I disegni a matita, la mattina sparivano, richiusi e portati via negli album . Nel laboratorio poi i disegni sarebbero diventati bestie di ferro duro e dettagli minuziosi di opere più grandi, estesi fino alla dimensione del paesaggio di una baia o di una collina.

Queste parole non rendono né il mondo immaginifico di un fantasy morbido e pauroso, che era insieme nordico e mediterraneo, né rendono il clima e il gusto di alcuni uomini e alcune donne che di quella forgia sono state amici e committenti.

Nel misterioso mondo dei laboratori dove sono stati fabbricati infiniti lavori per l’infinita voglia di abitare si sono incrociati le mani e i disegni, il fuoco e l’acqua, l’immaginazione ostinata di alcune relazioni. Alcuni di questi incontri pazzeschi tra il desiderio e la realizzazione, tra la favola e la schiettezza si svolgevano in posti incredibili e mi facevano  osservare il lavoro del nonno immerso  nel  mistero e nella meraviglia. Forse oggi come un rabdomante potrei ritrovare con semplicità il laboratorio nella Villa su in alto a destra in quella piccola casina schiacciata sulla collina in alto con vista sullo Stretto circondata dalle piante mediterranee, una casina opposta alla piscina a forma di fagiolo che segnava l’ultima espansione della casa o forse ritroverei quel piccolo laboratorio in un portale antico nei pressi del quartiere Avignone che serviva per le decorazioni del bar più noto della città, dei saloni e delle mode moderniste dei cinema. Potrei ritrovare la lingua di sabbia che d’estate portava all’isolotto e spariva all’interno dell’inverno e lo farei  usando una barchetta, quella che una volta prese lui e me sulla spiaggia portandoci nella  casa nata dallo scoglio. Quelle volte che mi portò entrai in un mondo immaginario che batteva ai punti tutti i film d’avventura e le storie di Jules Verne lette la sera prima, un mondo fatto di scale rocciose che attraversavano la pancia dell’isola; oblò di forme sghembe e pareti mobili a filomuro che nascondevano le tecnologie, salivamo su per le scale nella piscina naturale con una via crucis di rame scolpita dal nonno e appesa alle pareti che accompagnava dalla penombra alla luce riflettendo le mosse dell’acqua e si arrivava fino in cima, in un laboratorio incredibile, a mozzafiato, con un taglio nella roccia a filo e all’altezza degli occhi, un nastro inciso che affettava la roccia come una finestra, per schiudere il mondo della natura e riplasmarla negli infiniti mondi degli oggetti. Da lì la forma della vita è stata incandescente e dopo aver avuto la forma dell’impossibile, si è ossidata fino a sfarinarsi e disperdersi.

Parole incannicciate

ImmagineL’inseguimento di un’ombra conduce alla copertura di ogni fazzoletto di terra intorno alle case, spingimenti faticosi fatti di sporgenze, mensole di tettoie, balconi in aggetto e poi se rimane un po’ di suolo mi spingo di più, forzo la tegola e la allungo sulla vecchia pergola morta.

Non basta nulla, allora mi ficco sotto un ibisco e un nespolo e consumo quell’aria che scorre tra le pergole e le chiome sotto i fili incannucciati e ordinati del canneto.

Si mescola tutto con i vitigni vivi e morti, le canne regolari essiccate e tagliate, le zattere di bamboo intrecciate e cucite con i fili di rafia chiodata. Sono come delle coperte estive sulle teste, sono le ombre estese, le estensioni di parole dette sulle soglie e gli sguardi posati quando fa troppo caldo per andare a cercare qualcosa da fare.

Sembra una partita a Shangai sopra le teste e sotto gli sguardi gettati dai balconi, una natura nuova, astratta o forse solo postnaturale. Una tettoia di canne vissuta d’inverno sfugge al suo scopo e s’ingrigisce come le nuvole. A volte per confermare la sua disperazione vola via con il vento ,e sparisce, denuda le soglie delle case e le parole si ritirano per timidezza.