La città è una caponata

Cosa accade nelle Piazze e nelle Strade di Messina? Tanti osservatori dal palco dei social media vedono il mondo cittadino intorno, gli usi dello spazio e trillano annunciando nuove forme di urbanità o di oscenità, dichiarando forme di vita in comune o di accaparramento dello spazio, di inciviltà e regressione, vitalità e sviluppo, spasmi scomposti prima della morte civica.

Nelle strade e nelle piazze di Messina accadono occasioni da villaggio, da rione, da piccola e media città mediterranea; avvengono usi e abusi commerciali, si muovono spacciatori culturali e spacciatori di beverage, balli di piazza o milonghe improvvisate e karaoke fastidiosi, Urban Yoga e Street Gym. Ci sono saracinesce che si alzano, mood che si formano e poi si fermano, serate e mesi luccicanti  che in un lampo svaniscono, nella città si muovono in tanti, spesso intrecciandosi per caso o necessità: fighi, bamboccioni, chic, baitti, zalli e mau mau,

Che sia una processione, una movida, una sagra di paese in centro, una notte bianca o un black day, un festival della cultura mediterranea o un panino con la meusa incrociato con il Tajone (ndr. dajuni per gli accademici della crusca messinese), che sia  il pitone e la focaccia, un canto per san’Antonio o una sfilata dei confrati incappucciati, tutto riporta alle declinazioni dell’effetto città. E’ la città bellezza! Quello strano marchingegno instabile creato dall’uomo, adattabile ai luoghi e prodotto dalle società che lo abitano e lo costruiscono. La città è un modello di comunità aggregata nello spazio fisico, nella cultura e nel tempo, sempre in crisi ma sempre in crescita, luogo di contrazione e rilascio di energie, di raffinatezze, astio conflitto e ruvidità.

 La città è una frittola, una scagliozza, una caponata, un paesaggio, un ornato infinito, un saliscendi di colline tempestate di palazzine, punteggiate dai forti e ondulate dalle chiome dei pini; una maglia rigorosa di prove d’autore, di giardini e spazi segreti, di suk maldestri e costruzioni baraccate, di vuoti chiusi a chiave e resi indisponibili. La citta è una risma di fogli trasparenti, su ogni foglio ci stanno tracciati dei segni e degli scarabocchi ma è la sovrapposizione che forse alla fine ricostruisce una figura che poi forse è l’identità precaria o provvisoria che tutti cercano.

Di tutte queste occasioni si può dire di tutto, ma come diceva un vecchio slogan quando la fantasia voleva andare al potere “la bellezza è nelle strade“ poi qualcuno se è bravo la piglia e la raffina, la rende alta, gli dà una forma, la differenzia, la narra e la rende narrabile.

La città di Messina quando avevo 16  anni era un deserto, aveva le feste comandate ma per il resto stagnava. E’ vero che gli anni precedenti erano stati di piombo, che c’era il flusso e il riflusso e l’individuo strutturava il suo nascente edonismo; la Milano da bere avanzava e Messina  beveva e ballava altrove, i più ricchi ballavano facendo la spola su  Taormina e Catania, gli altri se proprio non resistevano in casa restavano dentro piazze semideserte con nessun bar  aperto aldilà dei soliti quattro.

Questi ultimi 15/20 anni sono stati un cocktail lungo quanto le riviere, la città è più vispa impoverita e più consumista, la cultura fa fatica come sempre ma mostra piccoli fermenti diffusi o anche solo ribolliture, le culture stanno nel tempo e nello spazio ma non si può sempre ricordare che a piazza Cairoli c’era la gloriosa libreria Ospe, i tavolini del caffè Irrera o che gli anni sessanta erano “fantastici”, perché tutto quello terminò già quando io ero poco più bambino.

Le capannine fumanti di arrosti e fritture di cibo, ficcate temporaneamente sotto gli alberi di piazza Cairoli hanno fatto esultare o incazzare dividendo promotori cittadini e detrattori.  Certo si possono fare meglio o migliorare ma alla fine hanno un tempo provvisorio.

Le città non sono solo le osservazioni di Goethe e le sindromi di Stendhal ma puzzano anche, scambiano merci odori e cibi, lo fanno negli spazi o edifici specialistici ma anche nelle strade e delle piazze.

Messina per la sua storia accelerata dal sisma fu rifatta su principi igienisti e modelli ingegneristici, tracciata e pensata a tavolino venne offerta alla vita di sfilacciate comunità di abitanti sopravvissuti e immigrati dal circondario e dell’area dello Stretto.

Le teorie urbane, la pianificazione del tempo, l’urgenza della ricostruzione cercarono di comporre una città in cui le piazze centrali si specializzavano tipologicamente secondo alcuni dei repertori delle piazze italiane.   Infatti, la storia italiana indica con tutta evidenza l’importanza della piazza quale centro vitale della città, una specie di palcoscenico dell’identità e del senso di appartenenza di una comunità, che permette la manifestazione quotidiana della collettività e del potere cittadino. La piazza italiana, nel repertorio storico dunque, si propone come un’inesauribile rappresentazione della vita en plein air, una messa in scena “teatrale” concepita per accogliere la folla delle feste, dei mercati, delle celebrazioni religiose.

I tre modelli consueti della tradizione italiana sono la piazza della cattedrale, la piazza civica, la piazza del mercato. Nelle stratificazioni urbane progressive sono  spesso intrecciate e si sovrappongono. Da queste premesse, e dalle innumerevoli variazioni che vengono a generarsi a seconda delle diverse situazioni culturali, geografiche, storiche, sono nati i sistemi di piazze, tipici dei centri italiani, in cui l’intersecarsi di ruoli e funzioni ha dato vita a “combinazioni” di spazi urbani originali e differenziati. A Messina la nascita contemporanea della nuova città pianificata non diede lo spazio e il tempo della combinazione. Il luogo combinatorio per eccellenza di funzioni, classi sociali, attività del lavoro e del potere economico cosi come dell’immagine cioè il porto e la sua palazzata diventarono altro. Il mercato della pescheria in metallo posizionato sulle banchine del porto e riproposto anche dopo il terremoto venne definitivamente sbaraccato ed espulso dalla città dopo essere stato centrato dalle bombe del 1943. Per tutto il dopoguerra, i gloriosi anni sessanta e poi gli anni settanta ottanta e novanta,  sono le attività canoniche dello scambio e dei mercati che come denti cariati vengono estratti dal corpo della città, dismessi o demoliti quelli rionali degli anni trenta, “sanificate” le strade mercato intorno a villa Dante o quelle del mercato di San Paolino su via Santa Cecilia; espulsi i mercati, le attività collaterali delle botteghe promiscue non decollano anzi non trovano nuove identità. Programmaticamente secondo un banale prontuario igienista tutti i mercati tematici, quotidiani o periodici saranno posizionati ai margini urbani non diventando né motori della riqualificazione delle periferie disperate, né stimolatori  per il cuore stanco del centro città.  Nel frattempo nuovi modelli economici e tipologici spostavano i flussi commerciali nei Mall center extra urbani in salsa locale.

A volte l’igienismo senza pensiero uccide i luoghi e l’economia, costruendo immagini senza corpo.

Nella storia le fiere e i mercati nacquero dall’aggregazione di venditori ambulanti che, a scadenze prefissate del calendario civile o religioso, si riunivano per offrire i loro prodotti. È l’aggregazione sociale e commerciale che mette in relazione dinamiche urbane e prove di convivenza, è il disporsi delle attività nello spazio che narra la specificità delle città. L’espulsione delle forme organizzate di mercato genera altre forme di accaparramento individuale di marciapiedi angoli di strada e luoghi visibili per le attività di scambio. Già perchè il cibo di strada, “veristicamente popolare”, quando è nelle strade e non in rassegna ordinata o informalmente contrattata, spesso prende spazi, ingloba semafori e interi marciapiedi, sposta l’economia sulla forza o prepotenza individuale e di uso esclusivo dello spazio. Invece di sviare il discorso, sono le strade, le piazze e gli spazi urbani i beni comuni materiali a cui sovrapporre prove di comunità e di usi non esclusivi,  ciclici, innovativi ma anche transitoriamente banali.maschere-topolino-815x420

Messina, gli incendi e la geografia della Città

“L’albero di prima è morto crocifisso, è stato deposto e sepolto dal fuoco, quest’albero come nel quadro di Sibiu di Antonello da Messina è un palo teso e un tizzone spento, quest’albero come nel quadro di Anversa di Antonello è un legno spoglio per issare carne”

Gli incendi hanno fatto parlare, gridare, scrivere e accusare. Siamo tutti pianificatori ambientali, conosciamo le gestioni forestali e i programmi regionali, discutiamo sulle reti natura 2000, le “zetapiesse”, i soprassuoli, i finanziamenti europei, i piani di azione locale, i Gal.

Esperti in protezione civile, invochiamo la protezione militare, arrivano i nostri non arriva nessuno, c’ero e ho visto, non c’era nessuno, eravamo abbandonati, allarme, panic no panic.  La sicurezza, gli eroi, i lavoratori, l’economia del rischio, gli striscioni, la paura, il coro da stadio, i colli sono friabili, le conifere ardono, il sottobosco non è controllato, ci sono le mafie e poi pure l’indifferenza. L’infinito carattere distruttivo e la volontà di morte.

Ogni incendio appiccato rimbalzava come l’eco di vallone in vallone, appiccato su a Calamona, risuonava all’Annunziata, correva a Giostra e poi a San Michele, poi ancora eco a Campo Italia, Casazza, Portella etc etc.

La geografia della città è stata sulla bocca di tutti, la forma del territorio pure, perché a ben pensarci Messina più di tante altre è una citta geografica, ha proprio forme, strutture e sistemi di colli, bacini fluviali, valli, mari, pizzi e calanchi, ma anche diffusi sistemi insediativi di piano, di colle e di pizzo che sembrano un atlante didattico. Sappiamo pure che nel pensare comune la geografia è per antonomasia una disciplina scolastica neppure tanto considerata. Fuori da scuola la geografia è vissuta come un’illusione, un gioco, una vacanza, una scienza mnemonica e fantasiosa. Eppure dall’intuizione di un libro di Giuseppe Dematteis sappiamo che la geografia è anche una metafora che ci consente parlando di una cosa di intenderne anche altre, senza geografia è difficile parlare degli umani. Ogni incendio si è sviluppato in una stanza territoriale diversa, perché ogni fiumara e i vari compluvi costruiscono a Messina stanze diverse, ogni valle ha i suoi villaggi che raramente hanno percezione e conoscenza degli altri villaggi. Affacciarsi da una finestra o da un’altra può far vedere fiamme infernali, flebili fumi o pacifici panorami.

La citta geografica è questa, con la sua forma diversa non riassumibile se non dall’alto dei voli o in parte dallo Stretto di mare, lo Stretto luogo fisico che permette di vedere, allineare e fare contare tutti insieme i fuochi degli incendi sui valloni, i compluvi e sui pizzi; vederli di qua e di là delle due coste come in un’impazzita Fata Morgana incendiaria. Questa forma variegata della nostra città geografica è fatta di stanze territoriali, spesso non comunicanti; stanze non comunicanti tra di loro che insieme alle terribili e storiche calamità,  forse spiegano un po’ la difficoltà antropologica di fare comunità anche di fronte alle difficoltà, solo l’eco comunica qualcosa ma lo fa in maniera alterata. Non ho certezza che la geografia di Messina rimarrà sulla bocca di tutti anche dopo aver spento gli incendi, eppure penso che la forma del territorio e delle città andrebbe conosciuta da tutti, somministrata in vari modi, un po’ come, l’acqua, l’aria, il cibo e l’amore. Ma anche  raccontata civilmente e scientificamente tutti i giorni della vita. Per questo non sapendo nulla di botanica provo  a raccontare un’immagine postuma di un albero defunto per il fuoco:

– L’estate brucia e le curve mi fanno risalire i colli sopra la città. L’estate brucia e porta via quello che non vorrei. Sono al trivio della portella Castanea, lì tra la risalita, la continuazione e la svolta, sta conficcato in terra un palo nero con alcune braccia a forcella; l’albero di prima è morto crocifisso, è stato deposto e sepolto dal fuoco, quest’albero come nel quadro di Sibiu di Antonello da Messina è un palo teso e un tizzone spento, quest’albero come nel quadro di Anversa di Antonello è un legno spoglio per issare carne.

Quello che vedo è solo questo ramo combusto, nero come pece, morto come un morto, e da cui sono svaporate le foglie ed è stata risucchiata la linfa.

Lo sfondo azzurro, impietoso per la sua bellezza, accompagna la figura, la porta via dalla natura e la sposta nell’accidentale luogo delle cose artificiali: tra cielo e terra si è infilzato un palo nero, senza nessun corpo santo e ladrone fissato e legato, ma con uno strano miracolo intorno alle sue braccia monche che prima erano vegete.

La chioma rinata per astrazione si aggrappa ai rami in una nuvola bianca lattiginosa e densa, apparizione risorta tra cielo e terra.

 Il tizzone nero ha corpi umani contumaci e una nuova improvvisa surrealtà.

 Il tizzone è solo al trivio, tra la risalita, la continuazione e la svolta; non c’è più linfa ma la sua nuova chioma di nuvole è labile e poetica e allude a una vaga possibilità.

L’infinito carattere distruttivo degli uomini si accompagna anche a un infinito carattere costruttivo degli uomini, quello che inventa anche nuove identità, quello che 100 e più anni fa anni immaginò un progetto di lunga durata progettando la foresta di Camaro o immaginò la scelta monotematica delle alberature conifere dei colli piantumando uno ad uno i piccoli alberelli. Chi progettò l’idraulica e la botanica dei colli, e tra questi Leone Savoja e Camillo Puglisi Allegra e poi gli anonimi forestali,  dalla fine dell’ottocento fino agli anni trenta, fece un progetto di lunga durata, un progetto senza la spinta narcisistica del risultato immediato e della soddisfazione della costruzione compiuta. Adesso che il risultato c’era, di nuovo in parte occorre ricominciare. IMG_4064

Parole incannicciate

ImmagineL’inseguimento di un’ombra conduce alla copertura di ogni fazzoletto di terra intorno alle case, spingimenti faticosi fatti di sporgenze, mensole di tettoie, balconi in aggetto e poi se rimane un po’ di suolo mi spingo di più, forzo la tegola e la allungo sulla vecchia pergola morta.

Non basta nulla, allora mi ficco sotto un ibisco e un nespolo e consumo quell’aria che scorre tra le pergole e le chiome sotto i fili incannucciati e ordinati del canneto.

Si mescola tutto con i vitigni vivi e morti, le canne regolari essiccate e tagliate, le zattere di bamboo intrecciate e cucite con i fili di rafia chiodata. Sono come delle coperte estive sulle teste, sono le ombre estese, le estensioni di parole dette sulle soglie e gli sguardi posati quando fa troppo caldo per andare a cercare qualcosa da fare.

Sembra una partita a Shangai sopra le teste e sotto gli sguardi gettati dai balconi, una natura nuova, astratta o forse solo postnaturale. Una tettoia di canne vissuta d’inverno sfugge al suo scopo e s’ingrigisce come le nuvole. A volte per confermare la sua disperazione vola via con il vento ,e sparisce, denuda le soglie delle case e le parole si ritirano per timidezza.