Amate l’architettura / Mostratene lo scalpo

20150920_131831 Per età, per interesse e memoria della città ho registrato alcuni stati di trasformazione delle cose costruite, degli spazi e delle relazioni tra abitanti e città.

Il tempo trasforma corpi ed edifici, li corregge o li invecchia con rughe e crepe.
Nel tempo si possono cambiare gli usi degli edifici fino a dimenticare anche il perchè della loro nascita.
¬¬In altri casi, quando per varie ragioni la vitalità di quei corpi o edifici si spegne, perdendo le motivazioni di esistenza, accade che si trascurino o anche si abbandonino .

In questi giorni alcuni edifici della città vivono quello che non avrebbero mai pensato di essere, ri-appaiono ai fruitori distratti della città, ma appaiono solo come una pelle, un supporto, una tela, un segnale, un presupposto per una nuova vitalità di superficie; uno scalpo mostrato agli indifferenti e ai distratti per un vistoso e nuovo motivo plausibile di esistenza.

Non vorrei ragionare sulle opere d’arte in sé , sulla tecnica e i linguaggi adoperati o sulla scala gigante del muralismo, neanche sulla scelta dei luoghi o sulle superfici trasformate in forma di lampo e apparizione attraverso mapping o il design della luce, non vorrei soffermarmi sulla bellezza o bruttezza ma sul significato o le ragioni future di quelle cose costruite.
La domanda che vorrei fare non è agli artisti muralisti, ai promotori, ai committenti o agli osservatori, la domanda la faccio agli architetti, agli urbanisti e a tutti quei pezzi di società che vissero, vivono e forse vivranno la città.

Cosa vogliamo farne di quel pezzo di città che salda porto e isolati, dogana e magazzini fino all’infrastruttura della stazione marittima? cosa vogliamo farne di quel pezzo aggregato di volumi muti e scorie, usi parziali e attese d’uso.
Cosa vogliamo di quegli edifici in relazione con il futuro , insomma cosa vogliamo fare di tutti quegli Ex , (ex magazzini , ex mercati, ex silos ) per farli ridiventare attuali: sostituirli? Sezionarli? Trasformarli? O ci basta solo truccarli? Tutti gli ex dietro le loro facce hanno un corpo, una struttura spaziale , un dentro e un fuori e fanno scatenare reazioni e relazioni, possono far vivere attività ed abitare persone e desideri, possono accogliere corpi e non solo “annacarsi” ed esibirsi alla vista . Ci accontentiamo del loro scalpo? Oppure non abbiamo più niente da dire attraverso l’architettura e cerchiamo nella narrazione dell’arte povera o ricca che sia, la chiave per far vivere la città o la sua rappresentazione?

Cosa vogliamo farne di quella ex Fiera? Di quei padiglioni che hanno avuto un tempo esatto, un progetto e un desiderio di essere prismi di cristallo e segni netti, luoghi per una umanità fiduciosa e che non fermava lo sguardo sulla parete ma incamerava il paesaggio attraverso il cristallo e la trasparenza. Tante persone hanno attraversato quei corpi costruiti e li hanno abitati , ci hanno lavorato , studiato, esposto oggetti , scambiato o accumulato merci.
La mia domanda è cosa farne per rilanciarne l’esistenza? Basta un lampo di luce e una suggestione notturna delle nuove tecnologie, che colora le superfici e fa riapparire i pezzi di costruito? Forse occorre una forte suggestione di senso sul corpo intero che ne faccia amare le ragioni di esistenza e non solo quelle dello spettacolo veloce dell’immagine.
L’architettura vive da sempre una componente legata alla sua rappresentazione e alla sua immagine e che nel modo di oggi è ancora più forte, ma qui in una città indebolita economicamente e socialmente l’operazione diventa più rischiosa se l’azione si ferma allo scalpo, se si delega solo alla superficie pitturata o illuminata la rigenerazione urbana, immaginando che basti una pittura gigante a dare un senso alle cose e alla loro ragione, fermando la vita urbana ad una sociologia percettiva, non entrando in quella relazione tra cose e abitanti che necessita di articolazione delle funzioni umane, di ragioni di essere, spessore e corpo, di orditura e spazio di relazione, di interno e non solo di esterno.
La foto lucente del Padiglione della Fiera è 1985 , ero un giovane apprendista architetto e stavo dentro quel corpo di cristallo insieme ad altri architetti di Messina e di tante città e nazioni immaginando progetti per una città; quell’acquario di corpi e idee era un tentativo razionale di usare una forma costruita e immaginarne un uso diverso dai motivi della sua costruzione, poi quell’immobile come tutta la Fiera di Messina seguì il suo corso di trascuratezza e il suo progressivo abbandono fino ad atti deliberati scientificamente per sfiguralo, una sorta di cattiveria umana organizzata si scagliò anche sull’edificio, nessun amore , affetto o rispetto: prima venne usato come semplice supporto coperto dalla gigantografia del ponte, poi sfigurato con disprezzo dalla vernice bianca e grigia e cancellare definitivamente la trasparenza.
Parlare di architettura non solo come fatto estetico ma anche come organizzazione terrestre della vita fisica e delle relazioni intellettuali e sociali delle persone, fare domande e fare progetti è un modo di amare l’architettura e non solo il suo scalpo.Domandarsi se l’innovazione della sola superficie non rischi di rafforzare solo la pura conservazione.

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