le foto sono di D.Giliberto
Il palazzo
Il palazzo malmesso è un ex collegio dei preti, è costruito da almeno settant’anni su un paesaggio di rovine e briciole della città antica, lì accanto si sono accatastate casupole, baracche e vite di persone.
Il fabbricato è un parallelepipedo decorosamente anonimo: un edificio in linea con il corpo scale in mezzo, ha un fregio ecclesiale sopra la porta, tante finestre rettangolari molte delle quali senza vetri. Al piano terra c’è una parete in mattoni sfondata dal pavimento fino alla trave, dietro la breccia solo rottami e rifiuti: una specie di pattumiera dello stabile e del quartiere. Il portone di legno ha le bugne sfondate dai ripetuti scassi e dai calci dei tanti occupanti e porta alle scale per risalire i tre piani. Ad ogni sbarco di piano c’è un corridoio. Tre lunghi corridoi portano i passi di chi ci abita, di chi ci entra ed esce o forse di chi scappa.
Visto da fuori è un palazzo che malgrado il suo stato incerto ha ancora presenza, entrarci, non era in programma. Era un sabato all’inizio del pomeriggio e il sole di fine aprile apriva uno squarcio di luce già abbastanza netto sulla vita di quel posto. Da una finestra un cenno d’invito senza richiesta ci inghiotte dentro, siamo nel portone: entrare mi fa immaginare un precipizio al contrario, una risalita verso i tre piani che però è come uno sprofondare dentro le vite di quegli abitanti sconosciuti; c’è come quella strana sensazione di credere che entrare e toccare quel posto sia come leggere un’intera enciclopedia, un film, una pittura, un racconto, un manuale d’uso, una lettera o una cartolina, un’invettiva, un documentario, una pornografia, una poesia.
Sulla porta c’è un biondo con i capelli lunghi, magro come un morto, ha il viso scavato con gli zigomi più duri delle pietre delle antiche mura dello Spirito Santo. Il biondo ha una coda di capelli stanchi, ha il torace nudo e tatuato di scritte e disegni non più netti, scalettati dai salti delle costole sporgenti. Pulisce la soglia e sorveglia la porta, osserva sospettoso, interroga su chi siamo e cosa vogliamo; è l’uomo dell’invito che poi ci fa da apripista, lui è un altro polacco, gonfio di alcol ma quasi sobrio. Si presenta come Franco, sarà Franciszek, poi Diventa Mario, sarà Mariusz, ma il suo nome non è tutto, è solo un inganno di identità. Franciszek-Mariusz fa da guida e padrone di casa: bussa alle porte, convince i suoi coinquilini ad aprire. Non so cosa faccia e perché faccia così, esibisce quelle storie private o semplicemente mostra che comunque proprio lì, malgrado l’inagibilità del luogo, c’è vita e la vita abita anche senza abitabilità.
Questo è un luogo strano, guardare è duro e prevedibile. Occorrono occhi che guardino diritto davanti, sappiano sorvegliare i lati e immaginare cosa accade alle spalle, occorre uno sguardo spalancato e attento mentre il pudore annebbia i ragionamenti, le certezze e le soluzioni. C’è una sequenza di intonaci in pezzi, disegni sui muri, pitture scrostate, soffitti senza la pelle, laterizi in vista. Il pavimento è ancora umido, le marmette in cemento sono lucenti per lo straccio passato da poco, le graniglie lavate hanno però un colore screziato di incuria e vecchie sporcizie. Tutto è abbastanza opaco cosicchè qualsiasi cosa pulita o levigata sembra brillare per contrasto – questa è la relatività delle sensazioni -. Le stanze si affacciano tutte da una parte, dall’altro ci sono i ruderi; faccio la conta delle stanze, saranno sei per piano, alcune abitate, altre vuote, altre sono stenditoi con panni stesi.
Ogni vita è una porta che si apre su un’idea domestica e semplificata di casa: è una ricostruzione o una zattera tra le macerie. Alcuni navigano verso altre terre, alcuni sono già naufraghi, alcuni attraversano per un momento un’interruzione della vita, altri sono già affondati tante volte, altri stanno coi piedi nel vuoto.
Le stanze
In molti posti del mondo Il primo modo di mostrare l’identità è la porta, ognuno ha la sua, il suo modo di essere soglia tra dentro e fuori. Qui sono telai di fortuna con inchiodati altri pezzi, sono le vecchie porte del collegio, sono tende per le ore di vita pubblica, sonosandwich stratificati per le ore di vita privata. Ogni porta si apre sulle vite private e collettive di questa casa albergo di fortuna, edificio occupato dall’Est, accomunato da una geografia economica che ha sputato persone poverissime in giro per l’Europa, spesso in fuga da altri niente.
Sono entrato nella prima stanza con timore e pudore, tre uomini e una donna stavano li intorno a delle scatole di cartone ordinate che facevano da tavolino centrale, caffè e sigarette forti, segni e rughe sulle facce degli abitanti e sulle facce della stanza.
Ogni faccia dei muri della stanza è una tessitura di carte incollate, di cartoni sovrapposti, di colori di carte regalo e giornali, una trama di stoffe casuali. Sembra un’addobbo o un luna park. L’infinita variazione dei colori e dei disegni e le tazze posate sugli scatoloni ti dicono che sei dentro una specie di salotto con delle chiacchere pomeridiane fra amici, le facce inconfondibili dell’est sono quelle con gli zigomi alti che spingono su le fessure degli occhi; le facce sono illuminate dal sole pomeridiano siciliano che ruota da sud ad ovest, quel sole che rende decisi i lineamenti umani e contrastata con ombre le imperfezioni.
Al piano successivo il corridoio è grigio con alcuni graffiti sui muri, un uomo spazza il pavimento, è un’immagine semplice ma triste: quell’uomo nel corridoio davanti alla stanza, è grasso e panciuto con maglietta e tuta, l’associazione all’immagine di un uomo in carcere è inevitabile. L’uomo è cordiale e si chiama Wassily ha anche un cane, la sua stanza è sciatta, nessuna cura, nessuna volontà, solo l’essenziale circondato da tutti i segni della precarietà, scatoloni, pacchi e buste in plastica con dentro la vita. Lui e il suo cane sembrano davvero dei reclusi, Wassily è solo, ha un cane e forse si è sganciato dal mondo.
Dall’altra parte del corridoio Hans ci fa entrare nella camera, la canottiera nera sottolinea la sua vita piegata sulle spalle, il suo aspetto ricorda Hans, già lo associo alla faccia che poteva avere un altro Hans, quello che faceva il clown e esprimeva opinioni nel racconto di Boll, lo so le letture dei quindicenni fanno strani effetti dopo trent’ anni. Questo Hans però non ha nessuna opinione se non quelle sul suo cane timido che sta sotto sotto il letto con le orecchie tese.
La stanza di Hans è una composizione stonata di tappezzerie e di colori. È un giorno iperrealista foderato di scampoli di stoffe, tappezzerie e tessuti. Hans dondola sulle sue gambe e sulle opinioni espresse nel libro tanti anni fa.
Salendo di piano, si sente di sprofondare verso il profondo di altre vite. E’ sempre Franciszek-Mariusz a bussare, insiste anche quando dietro la porta chiusa si capisce dalle voci che quelli non vogliono aprire e che rimandano l’apertura per rivestirsi. Lui Franciszek-Mariusz insiste, batte, spiega, sembra quasi che fosse assolutamente necessario entrare lì; ci dice: – sono rumeni – li classifica con la cura e la precisone di un naturalista, un Zola senza necessità che spiega, mostra e ordina scientificamente le creature viventi.
Entrati lì la scena è indubbiamente quella successiva ad un incontro sessuale, la ragazza è curata, con lineamenti regolari, ma con cosmetici che la colorano male, rivestita ma come si può rivestire qualcuno che sta quotidianamente sulla soglia dell’esibizione del corpo, si siede ad una specchiera poggiata su un tavolo come fosse una toletta mentre sul letto giace un uomo giovane, in mutande e a pancia in giù che non alzerà mai il viso, in piedi un altro uomo a torso nudo si riveste. La stanza è la stanza che più di tutte rivela una volontà di decoro e ornamento, la stanza più femmina del blocco edilizio: appesi a chiodi per 10 volte con passo regolare come fossero asciugamani, pendono tante stoffe colorate, foderano come un’istallazione un muro accanto al letto. Le stoffe sono meticolosamente appese al muro come dei parei, sono variopinte e si specchiano sulla specchiera di fronte, moltiplicate dal riflesso e dalle mille boccette della donna, quelle stoffe sembrano un omaggio ad una casa lasciata nei Balcani, sembrano un canto di Romania o un’ascendenza zingara, le stoffe sono lì e circondano quei tre corpi che stanno in posizione di assenza, uno a destra si accampa seduto alla toletta, l’altro in piedi al centro si riveste con gli occhi bassi sulla sua magrezza ed è pronto a scappare, l’altro a sinistra, in orizzontale giace seminudo senza mai mostrare il viso.
Franciszek-Mariusz è quasi contento di averci mostrato quel luogo e di averci fatto visitare le stanze.Infine andiamo in terrazza e guardiamo tutto dall’alto, la città normale, quella baraccata, quella degradata, quella sviluppata, quella cubata dalle mille palazzine, il torrino e le scale sulla terrazza sono come un fotogramma realista, crudo racconto senza alibi di un abbandono senza pietà.
Entrare nella stanza di Franciszek-Mariusz è il compimento del viaggio, lui è orgoglioso dei suoi rivestimenti murali che non rimandano alle origini geografiche ma che invece si perdono nella forza globale dei modelli di Armani. Sono sue corpi perfetti: una lei, che sta in posa tanto altera da non potere essere mai raggiunta da nessuno e un altro cartone con un lui, tanto estetico da non potere avere odore di carne. Le due immagini stereotipate in bianco e nero e con impressi slogan tra passione ed estetica coccolano e addormentano irrealisticamente Franciszek-Mariusz nelle sue notti nell’edificio occupato.
Per uscire dallo stabile ripassiamo dal biondo magro come un morto, anche lui mostra la sua stanza il suo cane e il suo mondo, il cattivo sembra solo un abito, ora è lì pacifico col suo cane sul suo letto, non ha nulla di ostile quando è col suo cane.
Un sabato pomeriggio come questo è sempre da raccontare per non farlo scivolare. Un sabato pomeriggio come questo è anche una possibilità di rivedere alcuni fatti, alcuni punti, alcune certezze e anche alcune frasi letterarie o alcune retoriche riformiste:
“La casa di adamo in paradiso”Joseph Rykwert 1972
Oppure: la casa di Hans è all’inferno
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Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino. Victor Hugo, I burgravi, 1843
Oppure: dalla casa posso vedere cosa hai mangiato, i molluschi o forse se hai divorato tutti gli inquilini.
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Una casa è una macchina per abitare.Le Corbusier, Verso un’ architettura, 1923
Oppure: una casa è una macchina incidentata
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Questa è la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio non soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia. John Ruskin, Sesamo e gigli, 1865
Oppure: la casa non ha natura, la sua natura è l’abitante che la indirizza verso le guerre, la casa e il suo abitante allevano spesso timori, torti, paure, dubbi e discordie.
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Ti sei accorto Camminando nella citta, come tra alcuni edifici che la popolano taluni siano muti, altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari cantano?… Paul Valery, Eupalino 1921
Oppure: ti sei accorto Camminando nella citta, come tra alcuni edifici che la popolano taluni siano muti, altri soffrono, mentre altri ancora, disperatamente urlano…
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“Poeticamente abita l’uomo” Friedrich Hölderlin
Oppure: comunque sia e a tutti i costi, Abita l’uomo