terre moti di maggio: morire costruendo

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Crolla il lavoro, crolla l’economia, crollano anche i diritti, poi si mette di traverso pure la terra che nel mese delle rose s’arrabbia, scuotendo dal profondo, tutto.

Gli scienziati raccontano di un conflitto tra placche terrestri, di spinte che arrivano dal sud del mondo, l’Africa spinge sull’Europa per questo come per altri motivi.

Le spinte tra i corrugamenti dei monti e le zone liscie delle pianure producono fratture, si chiamano faglie e sono lesioni della terra profonde come il taglio profondo di un coltello.

In questi terremoti non c’è modo di sapere chi è immortale e chi è sventurato, nessuno sa chi morirà, forse prima io o anche tu. Oggi è morto un operaio, no anzi due, tre, quattro, cinque, sei, sette….è strano morire mentre si lavora e mentre si costruisce qualcosa. Costruire e insieme morire è una contraddizione. Morire costruendo è anche un ossimoro. Eppure siamo stati abituati ai morti cascati giù dai ponteggi anche senza terremoti, ma non capiamo come mai si possa morire costruendo polistirolo leggerissimo o come si fa a morire costruendo il  timone di una barca; o chissà, anche morire cucendo e tessendo un lenzuolo o riempendo un materasso su cui si farà l’amore.

Muori perché ti casca giù il tetto, si spezza la struttura, si sbriciola un muro e si sgancia una scala in ferro; muori perché in molti posti si era pensato di costruire come se nulla potesse mai accadere;muori perché per fare in fretta, produrre e non perdere tempo si metteva su la fabbrichetta in poco tempo; muori perchè per anni il prefabbricato semplificato era pulito, rapido, conveniente ed eliminava tante mani d’opera.

Costruire è un’arte, una scienza e una tecnica e cosi usi quella tecnica che è necessaria: non c’era rischio e così mettevi le travi precompresse poggiate sui pilastri, questi li mettevi su plinti isolati senza collegamento, le travi le poggiavi su mensole come fossero soprammobili, tutto senza vincoli e connessioni di alcun tipo. Quei capannoni son caduti schiacciando gli operai: erano stati costruiti come se ti fosse arrivata a casa una grande scatola di costruzioni Lego, poi sono stati distrutti come se fosse arrivato a casa l’amichetto terribile,  quello che da piccoli rompeva sempre tutto, anche la tua costruzione migliore, quella bellissima.

Morire costruendo è un ossimoro, ma non è poi cosi raro; oggi  sono morti in tanti e nessuno ha una ragione in più rispetto agli altri per essere morto o  per essere ancora vivo. Gli operai che costruiscono sono l’ultima mano tra la mente e l’oggetto, sembrano essere un tentativo di dare una forma, un corpo e un modo  di realizzare progetti, quelli miei o quelli nostri, quelli degli altri.

Avevo una bisnonna operaia dagli occhi azzurri, lavorava in una filanda della seta fra il  Cimitero e Gazzi, era l’alba del 1908 aveva 17 anni ed era uscita dalla casa  di via Porta Imperiale a piedi, era un’alba buia il 28 dicembre ed era quasi arrivata in filanda, la terra tremò e si fratturò accanto ai suoi piedi, strinse la mano di sua sorella Caterina e si piegò in ginocchio, guardò davanti e la filanda era distrutta, guardò indietro e la città era avvolta di polvere e fumo. Lei si salvò, i suoi genitori a casa morirono, le sue compagne già dentro la fabbrica morirono filando un tessuto morbido e prezioso e schiacciate dal tetto, era dicembre oggi invece è un giorno di maggio.

Troppo pieno

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La mattinata di sabato si è infilata nella merce, è andata dove di solito non va: ha fatto un giro e ha guardato, non ha comprato e non ha venduto. Con quella mattinata c’ero anch’io e non mi serviva proprio niente, quindi ho contato i passi della gente e le monete che servono a pagare le cose.

Sono mercati o sono piccole botteghe, sono outlet o sono discount, ma quei luoghi del troppo pieno sono soprattutto posti a-spaziali, dove tutte le arti della composizione e della forma  naufragano. Quei posti ingurgitano cose e confondono gli occhi, apparecchiano la merce su tutti i ripiani; le cose si espongono su tutte le dimensioni: pavimento, pareti soffitto; pendono e risalgono, si elencano in disordine, si incastrano strette per non cadere e rimanere abbondanti

I negozi della crisi si riempono di tutto, tanta roba esonda dagli scaffali per poco prezzo. Sabato lì le persone dai poveri passi camminavano su scarpe nuove ma urticanti, con le mani impegnate a tastare tutto ciò che va comprato, le mani trattavano a gesti il prezzo e quando poi si convincevano afferravano le cose prendendo la banconota dal portafogli  in maniera attenta. Si vedeva alla fine un lampo di incertezza in quell’ ultimo fruscio fra pollice e indice prima del definitivo passaggio di mano.

Dopo che hai visto questi posti per un po’ ti rimane la vista e l’olfatto eccitato; c’è la vaga nausea nell’odore dei concentrati di colle e polimeri di suole a basso costo e ci sono occhi riempiti dall’allestimento ammonticchiato e trionfante delle grandi quantità di merce. Tutto è appeso e pende, sembra una Chinatown dentro il quartiere Avignone: che siano suole, ciabatte, intrecci vinilici o animali volatili poco importa. Questi posti, senza le presunte scienze del retail, concentrano in un sistema totale senza architettura e senza layout l’esposizione e  il loro magazzino. Tutto sta insieme ma eccedendo: il troppo pieno non è solo un meccanismo idraulico che fa tracimare nello scarico l’eccesso di liquido, il troppo pieno di merce e di esposizione è il meccanismo della scienza  del marketing e del retail organizzato, ma è anche il meccanismo che fa tracimare l’eccesso di desideri delle persone dai passi urticati, tutti quei desideri accumulati negli anni tracimano, riempono gli occhi , sì.  I desideri sono tutti li, sabato, con i poveri passi, tutto è troppo pieno e insieme è troppo vuoto.

Uno storyboard in 3D

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. 

– Jorge Luis Borges, Epilogo da L’artefice, 1960

 documentario  realizzato dal collettivo artistico MACHINE WORKS 07

Nel quartiere MareGrosso c’è la ruvidità delle storie di margine poggiate su un grande pozzo nero lasciato intasato: case, baracche, vite e scheletri di edifici commerciali. Rovinata e frastornata dal presente e da tutto il passato, sta lì la casa del Cavaliere Cammarata, lui è morto e la sua arte non è piu sorvegliata. La Zona Cammarata, chiamata così da quei pochi che ne hanno indicato il destino, manifestato il rammarico e desiderato una cura, è un frammento di frammenti, un catalogo di spezzoni, la rovina di uno Storyboard in 3D che ha rappresentato per più di 50anni la storia di un uomo vissuto tra figurazioni e modellazioni di cemento e impasti di colore, tra frammenti di ceramica e assemblaggi di ciottoli. Lui che ha figurato la sua casa come un esempio bric à brac, come la sponda di un carretto siciliano, come il Disney della strada, come un carro allegorico sempre in costruzione ma programmaticamente fermo e senza sfilate.

Quel posto è un grumo in un flusso emorragico, un embolo tra le arterie abbandonate della città. Zona Cammarata non è un manufatto finito ma come l’hanno chiamata gli autori del video è una Zona dove si svolgono attività: quella dell’abitare e quella del raccontare.  Abitare e raccontare però si oppongono, sono come l’implicito e l’esplicito, come l’essenza e l’accidente. Niente è (im)possibile in una casa pretesto, in un palcoscenico di forme senza dovere di risposta. La forma di vita rappresentata è senza luogo, viene prima del futuro e si posiziona mescolando le coniugazioni del tempo, sta lì come recupero di spazi provvisoriamente disponibili, non porta altro che il suo racconto frammentario, è un catalogo che per eccesso sposta per lampi forzati e acrobatici i miei ricordi tra gli accumuli infiniti della casa del colto Sir John Soane’s e gli abachi intrecciati e mescolabili delle forme eclettiche, tra il pittoresco dei giardini apolidi e il naive disarmante dei matti.

Carte mescolate

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Oggi si è sovrapposto un corpo su un altro corpo, una prova d’innesto provvisorio tra cose ferme e cose mobili, uno strofinio di metallo verniciato dello scafo sul cemento e il marmo dei muri dell’ex palazzo del fascio. Quando arrivano le navi crociera in porto, si cambia misura. Sono navi anche molto alte e si misurano con le cose e i palazzi vicini; ormai sembrano come i ragazzi di questi tempi: ancora adolescenti ma già alti più di una spanna rispetto ai loro padri.

Sono navi internazionali e di apparenza che hanno però più finestre dei condomini intensivi; ci sono corridoi di prima, seconda, terza e quarta categoria e tutto ciò che crea villaggio vacanza: piscine, sguazzi, saune, bar e ristoranti.

Una nave dietro l’ex Littorio bianco della Palazzata è un innesto a misura che confonde il prima e il dopo, il transitorio e il permanente. Quando al mattino arriva la nave e suona la sirena, il ponte passeggeri più alto e quello di comando li vedi affacciati sulla guaina impermeabilizzante della terrazza del palazzo, capitani e viaggiatori si dedicano all’introspezione delle terrazze con un tuffo dal trampolino e un occhio sul tetto.

Nella città spesso è così, oggi ti svegli con nuovi condomini galleggianti che incombono sulla strada, domani poi questi scompariranno lasciando la piazza liquida del porto completamente deserta.

Condomini galleggianti fermi per poche ore, durano poco e non danno il tempo di abituarti a quel paesaggio di città, così, appena volti le spalle prendi il caffè e mangi una cosa, senti un sibilo e una sirena, e quella, – la nave -, parte.

Il palazzo bianco, orgoglioso, torna a stare in prima fila: quelli che vanno per mare vanno, quelli che restano in città sanno che restano per mandato o per destino.

La città sempre in movimento o sempre in posa è una possibilità di racconto continua e le immagini scorrono come piani di cinema. Dettaglio e primo piano, piano medio, sfondo e panoramica della città sono forse come le carte da gioco mescolate, a volte un azzardo o un baro le mette lì, poi quando hai capito il gioco, loro, accompagnate da un barrito, una sirena, un inchino o una sigla orchestrata dal ponte, scompaiono.

Con garbo, ritrovare tutti i pezzi sparsi e costruire una barca.

report foto di marco crupi

http://marcocrupifoto.blogspot.it/2010/01/antonio-mancuso-linventore-della.html

Migliaia di pezzi sparsi, schegge e tavole, tutto lì contenuto come fossero rimasugli dentro una pancia piena. Dentro la pancia che sta sulla spiaggia c’è un grande bosco, ogni pezzetto di legno sparso a terra, sui piani e sulle pareti, odora di abeti, pini calabri, lecci, gelsi, larici e faggi. Ogni essenza ha un senso, una disposizione, un disegno di taglio e anima, un carattere e trama di famiglia. C’è la compattezza del gelso per le costole, la durezza della quercia per le parti vitali della chiglia e delle ordinate; la leggerezza del larice e del pino per il fasciame dei fianchi, la solidità e la resistenza del faggio per l’affondo dei remi nell’acqua. Vedendo questo bosco inghiottito in pancia, prima di essere sputato in mare, è difficile immaginare la costruzione di forme precise: sagome nette e ripetute, talmente perfette da dover superare la prova della navigazione. Nella pancia del capannone si affolla di tutto: lime, tenaglie, pialle, raspe, martelli, canapa catramata, olio, cotone e ovatta. In questo caos con il garbo e il mezzo garbo si fa il modello e si costruiscono le barche.

Costruire con garbo, perchè il garbo è una forma di misura e un metodo dei maestri d’ascia ma è anche una forma di essere delle persone verso gli altri umani e verso le cose.

Una pancia ha inghiottito un bosco, era affollata di pezzi sparsi, legni curvati,  fasce incise e zeppe minuscole. C’erano gli attrezzi e i chiodi, il cotone, la canapa e il catrame; un uomo ha ritrovato tutti i pezzi sparsi e con garbo ha costruito una barca.

Walled garden

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Non è la tua città, non conosci bene le strade, sei geo-sperduto. Quando sei stanco di vedere posti terrificanti per tenere gli occhi aperti sviluppi anticorpi.

Negli appezzamenti della crescita edilizia, in maniera occasionale, uno dopo l’altro i fabbricati si oppongono aggiungendosi di parti e di pezzi. Un modo di farsi costruito in questi posti è quello di accatastarsi per gruppi di interessi ravvicinati quasi per compound genetici allargati.

Intorno a questi posti le cose costruite sono realisticamente opere aperte, nessuna conclusione: terrazzi, balconi, verande, dilatazioni laterali, scale puntate  verso il cielo, sbalzi verso future crescite. Al piano della terra invece si ha chiaro che nessuna opera costruita vuole essere aperta alla relazione, gli spazi conclusi e i frammenti di proprietà contengono le mille variazioni del recinto, della murazione, della difesa, della ringhiera, dello steccato: un fortilizio domestico in cui ritirare tutte le proprie forze economiche ed affettive.

Mi sono fermato su un ostacolo sorprendente per forma e improvvisazione. Un limite tra terra e case. La stessa occasionalità, delle azioni edificate intorno, ha guidato le mani di chi ha costruito questo recinto, fatto di pezzi tutti diversi ma in un casuale equilibrio poetico. E’ il giardino chiuso di  un apache, di  un pastore, di un poeta, di un eremita; sulle sue punte affilate sta la certezza della guerra, nelle fessure sconnesse sta l’incertezza della resistenza.

Cos’è? E’ una piazza?

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Cos’è? E’ una piazza? – chiese Kratos – “Non esattamente” – disse Euge, –

“..è solo la strada davanti casa, non è stata pensata come piazza ma come piazza è utilizzata da tutti quelli che non hanno fretta. Vedi, c’è la fontanella con l’acqua, c’è l’ombra che pavimenta la strada ed esclude la circolazione a motore, ci sono anche le sedie bianche per sedersi “.

Il diametro di quel tetto verde è ampio con le foglie dei rami tenere e frescose; quell’albero giovane e arioso non è  greve e non si ammassa sulle vite di chi si è fermato, non piange resine e non appiccica i capelli. Euge è piu giovane, non si è mai fermato sotto quell’albero, ma da lontano ha sempre osservato chi stava seduto, le tante rughe e le mani mosse nell’ aria per disegnare i discorsi lenti e quelli animati, Euge aveva rispetto per quelle sedie scompagnate, che sapeva essere private ma anche comuni, corrispondenti  al numero dei  corpi, una per ciascuno; sempre occupate ma a volte vuote per segnare l’assenza di chi si era ammalato o di chi era davvero morto. Kratos che girava e conosceva molte città e molti posti, aveva sempre una spiegazione per tutto, era un ladro di storie e di figure,  e ogni volta che aveva bisogno, rovistava nella memoria, nella borsa o nelle tasche.

-“Caro Euge quei vecchi hanno scelto bene un posto, lo hanno abitato, lo hanno rinominato e quel posto adesso è una piazza. Vedi non  so se prima o poi moriranno tutti loro , e voi giovani che avete fretta, avrete davvero voglia di sostituire le sedie rotte: ma la piazza è fatta, ha anche un nome possibile perchè infatti sai indicarla,  è pavimentata dall’ombra e con la sua fontanella d’acqua fresca  è aperta agli ospiti. Euge, qui mi torna in mente un’immagine sacra, eppure sai che io di santi non me ne intendo, quell’albero è come quel santo che tiene in braccio sulle ginocchia tutta la città di San Gimignano, lo vidi nel museo del paese delle Torri. Qui dove vivi tu, la città è sperduta, non ha nè torri nè chiese, ma quell’albero tiene sul grembo gli abitanti e li protegge dal sole con il suo mantello, loro sono vecchi ma continuano a disegnare con le mani e i gesti le loro parole, tu così da lontano puoi in qualche modo capirli e sapere se sono quieti o arrabbiati, io non lo so più, dove sto io stanno tutti in casa, per strada non vedo nessuno e sento solo le parole animate dette in TV”.

Il viaggio è finito

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Una linea ferrata morta è l’abbandono di un’andata e di un ritorno, di un bacio e di un risveglio, di un’attesa e di una ripetizione.

La linea ritrovata in un paesaggio di colline deboli, non da scampo e ferma gli occhi, sottolinea potente il ferro poggiato sulla terra svangata. E’ una retta tesa a metà fra le curve e i calanchi e i campi d’erba secca. È un segmento di ferro e legno assestato sulle pietre grigie.

Il treno non è stato solo frenato e sospeso, ma sta lì di traverso sul campo ingiallito, per toglierlo dalla linea l’hanno come deragliato, alzato con una mano e messo fuori, sembra un giocattolo spostato e abbandonato dai bambini diventati di colpo uomini.

Sta lì come un segmento ortogonale alla linea della ferrovia e alla linea della strada, quel treno miracoloso ha oggi un aspetto dichiaratamente organico: somiglia, si confonde e si dissolve nel suo nuovo vassoio di erba secca e fili d’erba a ciuffi.

I colori della ruggine sono come i colori del fieno, le macchie arrugginite sul treno somigliano alle chiazze ombrose sulla terra, a quelle più scure perché mosse dal vento. Il bianco della lamiera sembra l’argilla svelata dai calanchi, il verde littorino si sovrappone a quello dei cespugli d’erba e degli arbusti selvatici miracolosamente scampati al grano.

Non è una costruzione dello spazio ma è spazio suo malgrado, una nuova stanza di attesa nella campagna distratta, è uno scarto ma anche un paesaggio. Il suo stendersi convesso sul campo ribalta i viaggi di chi va e chi viene, non ferma il vento che invece passa attraverso i finestrini e le porte aperte. Vi passano anche i corvi, gli uccelli, gli insetti, a volte è attraversato anche dagli animali di terra; il cielo è da una parte e dall’altra, lì a bordo, in quella posizione ortagonale alla strada e ai binari, gli animali non vanno e non tornano, restano lì in attesa e guardano da dove sono arrivati e dove sarebbero potuti  andare, perché adesso il viaggio sicuramente è finito.

In un Palazzo Abita l’uomo – “Quando si sollevano le gonne della città, ne vediamo il sesso.(j.l Godard)”

le foto sono di D.Giliberto

Il palazzo 

Il palazzo malmesso è un ex collegio dei preti, è costruito da almeno settant’anni su un paesaggio di rovine e briciole della città antica, lì accanto si sono accatastate casupole, baracche e vite di persone.

Il fabbricato è un parallelepipedo decorosamente anonimo: un edificio in linea con il corpo scale in mezzo, ha un fregio ecclesiale sopra la porta, tante finestre rettangolari molte delle quali senza vetri. Al piano terra c’è una parete in mattoni sfondata dal pavimento fino alla trave, dietro la breccia solo rottami e rifiuti: una specie di pattumiera dello stabile e del quartiere. Il portone di legno ha le bugne sfondate dai ripetuti scassi e dai calci dei tanti occupanti e porta alle scale per risalire i tre  piani. Ad ogni sbarco di piano c’è un corridoio. Tre lunghi corridoi portano i passi di chi ci abita, di chi ci entra ed esce o forse di chi scappa.

Visto da fuori è un palazzo che malgrado il suo stato incerto ha ancora presenza, entrarci, non era in programma. Era un sabato all’inizio del pomeriggio e il sole di fine aprile apriva uno squarcio di luce già abbastanza netto sulla vita di quel posto. Da una finestra un cenno d’invito senza richiesta ci inghiotte dentro, siamo nel portone: entrare mi fa immaginare un precipizio al contrario, una risalita verso i tre piani che però è come uno sprofondare dentro le vite di quegli abitanti sconosciuti; c’è come quella strana sensazione di credere che entrare e toccare quel posto sia come leggere un’intera enciclopedia, un film, una pittura, un racconto, un manuale d’uso, una lettera o una cartolina, un’invettiva, un documentario, una pornografia, una poesia.

Sulla porta c’è un biondo con i capelli lunghi, magro come un morto, ha il viso scavato con gli zigomi più duri delle pietre delle antiche mura dello Spirito Santo. Il biondo ha una coda di capelli stanchi, ha il torace nudo e tatuato di scritte e disegni non più netti, scalettati dai salti delle costole sporgenti. Pulisce la soglia e sorveglia la porta, osserva sospettoso, interroga su chi siamo e cosa vogliamo; è l’uomo dell’invito che poi ci fa da apripista, lui è un altro polacco, gonfio di alcol ma quasi sobrio. Si presenta come Franco, sarà Franciszek, poi Diventa Mario, sarà Mariusz, ma il suo nome non è tutto, è solo un inganno di identità. Franciszek-Mariusz fa da guida e padrone di casa: bussa alle porte, convince i suoi coinquilini ad aprire. Non so cosa faccia e perché faccia così, esibisce quelle storie private o semplicemente mostra che comunque proprio lì, malgrado l’inagibilità del luogo, c’è vita e la vita abita anche senza abitabilità.

Questo è un luogo strano, guardare è duro e prevedibile. Occorrono occhi che guardino diritto davanti, sappiano sorvegliare i lati e immaginare cosa accade alle spalle, occorre uno sguardo spalancato e attento mentre il pudore annebbia i ragionamenti, le certezze e le soluzioni. C’è una sequenza di intonaci in pezzi, disegni sui muri, pitture scrostate, soffitti senza la pelle, laterizi in vista. Il pavimento è ancora umido, le marmette in cemento  sono lucenti per lo straccio passato da poco, le graniglie lavate hanno però un colore screziato di incuria e vecchie sporcizie. Tutto è abbastanza opaco cosicchè qualsiasi cosa pulita o levigata sembra brillare per contrasto – questa è la relatività delle sensazioni -. Le stanze si affacciano tutte da una parte, dall’altro ci sono i ruderi; faccio la conta delle stanze, saranno sei per piano, alcune abitate, altre vuote, altre sono stenditoi con panni stesi.

Ogni vita è una porta che si apre su un’idea domestica e semplificata di casa: è una ricostruzione o una zattera tra le macerie. Alcuni navigano verso altre terre, alcuni sono già naufraghi, alcuni attraversano per un momento un’interruzione della vita, altri sono già affondati tante volte, altri stanno coi piedi nel vuoto.

Le stanze

In molti posti del mondo Il primo modo di mostrare l’identità è la porta, ognuno ha la sua, il suo modo di essere soglia tra dentro e fuori. Qui sono telai di fortuna con inchiodati altri pezzi, sono le vecchie porte del collegio, sono tende per le ore di vita pubblica, sonosandwich stratificati per le ore di vita privata. Ogni porta si apre sulle vite private e collettive di questa casa albergo di fortuna, edificio occupato dall’Est, accomunato da una geografia economica che ha sputato persone poverissime in giro per l’Europa, spesso in fuga da altri niente.

Sono entrato nella prima stanza con timore e pudore, tre uomini e una donna stavano li intorno a delle scatole di cartone ordinate che facevano da tavolino centrale, caffè e sigarette forti, segni e rughe sulle facce degli abitanti e sulle facce della stanza.

Ogni faccia dei muri della stanza è una tessitura di carte incollate, di cartoni sovrapposti, di colori di carte regalo e giornali, una trama di stoffe casuali. Sembra un’addobbo o un luna park. L’infinita variazione dei colori e dei disegni e le tazze posate sugli scatoloni ti dicono che sei dentro una specie di salotto con delle chiacchere pomeridiane fra amici, le facce inconfondibili dell’est sono quelle con gli zigomi alti che spingono su le fessure degli occhi; le facce sono illuminate dal sole pomeridiano siciliano che ruota da sud ad ovest, quel sole che rende decisi i lineamenti umani e contrastata con ombre le imperfezioni.

Al piano successivo il corridoio è grigio con alcuni graffiti sui muri, un uomo spazza il pavimento, è un’immagine semplice ma triste: quell’uomo nel corridoio davanti alla stanza, è grasso e panciuto con maglietta e  tuta, l’associazione all’immagine di un uomo in carcere è inevitabile. L’uomo è cordiale e si chiama Wassily  ha anche un cane, la sua stanza è sciatta, nessuna cura, nessuna volontà, solo l’essenziale circondato da tutti i segni della precarietà, scatoloni, pacchi e buste in plastica con dentro la vita. Lui e il suo cane sembrano davvero dei reclusi, Wassily è solo, ha un cane e forse  si è sganciato dal mondo.

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Dall’altra parte del corridoio Hans ci fa entrare nella camera, la canottiera nera sottolinea la sua vita piegata sulle spalle, il suo aspetto ricorda Hans, già lo associo alla faccia che poteva avere un altro Hans, quello che faceva il clown e esprimeva opinioni nel racconto di Boll, lo so le letture dei quindicenni fanno strani effetti dopo trent’ anni. Questo Hans però non ha nessuna opinione se non quelle sul suo cane timido che sta sotto sotto il letto con le orecchie tese.

La stanza di Hans è una composizione stonata di tappezzerie e di colori. È un giorno iperrealista foderato di scampoli di stoffe, tappezzerie e tessuti. Hans dondola sulle sue gambe e sulle opinioni espresse nel libro tanti anni fa.

Salendo di  piano, si sente di sprofondare verso il profondo di altre vite. E’ sempre Franciszek-Mariusz a bussare, insiste anche quando dietro la porta chiusa si capisce dalle voci che quelli non vogliono aprire e che rimandano l’apertura per rivestirsi. Lui Franciszek-Mariusz insiste, batte, spiega, sembra quasi che fosse assolutamente necessario entrare lì; ci dice: – sono rumeni – li classifica con la cura e la precisone di un naturalista, un Zola senza necessità che spiega, mostra e ordina scientificamente le creature viventi.

Entrati lì la scena è indubbiamente quella successiva ad un incontro sessuale, la ragazza è curata, con lineamenti regolari, ma con cosmetici che la colorano male, rivestita ma come si può rivestire qualcuno che sta quotidianamente sulla soglia dell’esibizione del corpo, si siede ad una specchiera poggiata su un tavolo come fosse una toletta mentre sul letto giace un uomo giovane, in mutande e a pancia in giù che non alzerà mai il viso, in piedi un altro uomo a torso nudo si riveste. La stanza è la stanza che più di tutte rivela una volontà di decoro e ornamento, la stanza più femmina del blocco edilizio: appesi a chiodi per 10 volte  con passo regolare come fossero asciugamani,  pendono tante stoffe colorate, foderano come un’istallazione un muro accanto al letto. Le stoffe sono meticolosamente appese al muro come dei parei, sono variopinte e si specchiano sulla specchiera di fronte, moltiplicate dal riflesso e dalle mille boccette della donna, quelle stoffe sembrano un omaggio ad una casa lasciata nei Balcani, sembrano un canto di Romania o un’ascendenza zingara,  le stoffe sono lì e circondano quei tre corpi che stanno in posizione di assenza, uno a destra si accampa seduto alla toletta, l’altro in piedi al centro si riveste con gli occhi bassi sulla sua magrezza ed è pronto a scappare, l’altro a sinistra, in orizzontale  giace seminudo senza mai mostrare il viso.

Franciszek-Mariusz è quasi contento di averci mostrato quel luogo e di averci fatto visitare le stanze.Infine andiamo in terrazza e guardiamo tutto dall’alto, la città normale, quella baraccata, quella degradata, quella sviluppata, quella cubata dalle mille palazzine, il torrino e le scale sulla terrazza sono come un fotogramma realista, crudo racconto senza alibi di un abbandono senza pietà.

Entrare nella stanza di Franciszek-Mariusz è il compimento del viaggio, lui è orgoglioso dei suoi rivestimenti murali che non rimandano alle origini geografiche ma che invece si perdono nella forza globale dei modelli di Armani. Sono sue corpi perfetti: una lei, che sta in posa tanto altera da non potere essere mai raggiunta da nessuno e un altro cartone con un lui, tanto estetico da non potere avere odore di carne. Le due immagini stereotipate in bianco e nero e con impressi slogan tra passione ed estetica coccolano e addormentano irrealisticamente Franciszek-Mariusz nelle sue notti nell’edificio occupato.

Per uscire dallo stabile ripassiamo dal biondo magro come un morto, anche lui mostra la sua stanza il suo cane e il suo mondo, il cattivo sembra solo un abito, ora è lì pacifico col suo cane sul suo letto, non ha nulla di ostile quando è col suo cane.

Un sabato pomeriggio come questo è sempre da raccontare per non farlo scivolare. Un sabato pomeriggio come questo è anche una possibilità di rivedere alcuni fatti, alcuni punti, alcune certezze e anche alcune frasi letterarie  o alcune retoriche riformiste:

“La casa di adamo in paradiso”Joseph Rykwert 1972

Oppure: la casa di Hans è all’inferno

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Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino. Victor HugoI burgravi, 1843

Oppure:  dalla casa posso vedere cosa hai mangiato, i molluschi o forse se hai divorato tutti gli inquilini.

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Una casa è una macchina per abitare.Le CorbusierVerso un’ architettura, 1923

Oppure: una casa è una macchina incidentata

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Questa è la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio non soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia. John RuskinSesamo e gigli, 1865

Oppure:  la casa non ha natura, la sua natura è l’abitante che la indirizza verso le guerre, la casa e il suo abitante allevano spesso timori, torti, paure, dubbi e discordie.

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Ti sei accorto Camminando nella citta, come tra alcuni edifici che la popolano taluni siano muti, altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari cantano?… Paul Valery, Eupalino 1921

Oppure: ti sei accorto Camminando nella citta, come  tra alcuni edifici che la popolano taluni siano muti, altri soffrono, mentre altri ancora, disperatamente urlano…

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“Poeticamente abita l’uomo” Friedrich Hölderlin

Oppure: comunque sia e a tutti i costi, Abita l’uomo

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