Oggi è solo un’ossatura dello spazio, un abbraccio timido alle relazioni umane che si inventano e muoiono nei passaggi di stagione, un perimetro schematico per camminare, un volume sfondato dal paesaggio potente e dalle migrazioni delle nuvole.
I capannoni issati a filo di ferro stanno lì come hangar nudi sulla spiaggia di cariddi, hangar svuotati di tutto e riempiti di nuvole. Sono capannoni di un cantiere morto più di quarant’anni fa dopo aver ammarato modernità navali, aliscafi inventati per vincere l’inerzia voluttuosa della storia dei mari, costruiti per planare coprendo coi rumori meccanici e le sirene dei turni i suoni dei gorghi e delle sirene immaginifiche.
Lo svuotamento è stato un caso del tempo, una sottrazione di elementi di parti e di attività; resta adesso l’ossatura metallica che ha costruito l’immagine di quel luogo più del pieno e della solidità, la forma scarnificata dello spazio definisce la possibilità delle avventure e prefigura un uso; lo svuotameento del corpo costruito di solito genera assenza, poi accade per delle variabili umane che si ribalta l’effetto rendendo il vuoto presenza. Strutturando le qualità del vuoto si asciugano tutte le complessità interne fatte dagli strati o dalle densità; il vuoto assoluto è riempito di vite e di nuove produzioni,di affermazioni e rifiuti mentre Il valore dell’internità è un lampo contraddittorio di una casa senza tetto e di una fabbrica senza pareti. La forza estetica e linguistica approda alla superficie impalpabile e incosistente, il limite esterno senza pelle diventa la narrazione unica che accoglie e riverbera tutte le suggestioni urbane e ambientali. Nel vuoto interno le vite e i corpi si incrociano senza riparo, l’altalena che oscilla dalle funi batti un tempo e insegue le spinte delle correnti dei due mari dello stretto. Io me ne vado piano senza far rumore, lentamente socchiudo gli occhi.