La città è una caponata

Cosa accade nelle Piazze e nelle Strade di Messina? Tanti osservatori dal palco dei social media vedono il mondo cittadino intorno, gli usi dello spazio e trillano annunciando nuove forme di urbanità o di oscenità, dichiarando forme di vita in comune o di accaparramento dello spazio, di inciviltà e regressione, vitalità e sviluppo, spasmi scomposti prima della morte civica.

Nelle strade e nelle piazze di Messina accadono occasioni da villaggio, da rione, da piccola e media città mediterranea; avvengono usi e abusi commerciali, si muovono spacciatori culturali e spacciatori di beverage, balli di piazza o milonghe improvvisate e karaoke fastidiosi, Urban Yoga e Street Gym. Ci sono saracinesce che si alzano, mood che si formano e poi si fermano, serate e mesi luccicanti  che in un lampo svaniscono, nella città si muovono in tanti, spesso intrecciandosi per caso o necessità: fighi, bamboccioni, chic, baitti, zalli e mau mau,

Che sia una processione, una movida, una sagra di paese in centro, una notte bianca o un black day, un festival della cultura mediterranea o un panino con la meusa incrociato con il Tajone (ndr. dajuni per gli accademici della crusca messinese), che sia  il pitone e la focaccia, un canto per san’Antonio o una sfilata dei confrati incappucciati, tutto riporta alle declinazioni dell’effetto città. E’ la città bellezza! Quello strano marchingegno instabile creato dall’uomo, adattabile ai luoghi e prodotto dalle società che lo abitano e lo costruiscono. La città è un modello di comunità aggregata nello spazio fisico, nella cultura e nel tempo, sempre in crisi ma sempre in crescita, luogo di contrazione e rilascio di energie, di raffinatezze, astio conflitto e ruvidità.

 La città è una frittola, una scagliozza, una caponata, un paesaggio, un ornato infinito, un saliscendi di colline tempestate di palazzine, punteggiate dai forti e ondulate dalle chiome dei pini; una maglia rigorosa di prove d’autore, di giardini e spazi segreti, di suk maldestri e costruzioni baraccate, di vuoti chiusi a chiave e resi indisponibili. La citta è una risma di fogli trasparenti, su ogni foglio ci stanno tracciati dei segni e degli scarabocchi ma è la sovrapposizione che forse alla fine ricostruisce una figura che poi forse è l’identità precaria o provvisoria che tutti cercano.

Di tutte queste occasioni si può dire di tutto, ma come diceva un vecchio slogan quando la fantasia voleva andare al potere “la bellezza è nelle strade“ poi qualcuno se è bravo la piglia e la raffina, la rende alta, gli dà una forma, la differenzia, la narra e la rende narrabile.

La città di Messina quando avevo 16  anni era un deserto, aveva le feste comandate ma per il resto stagnava. E’ vero che gli anni precedenti erano stati di piombo, che c’era il flusso e il riflusso e l’individuo strutturava il suo nascente edonismo; la Milano da bere avanzava e Messina  beveva e ballava altrove, i più ricchi ballavano facendo la spola su  Taormina e Catania, gli altri se proprio non resistevano in casa restavano dentro piazze semideserte con nessun bar  aperto aldilà dei soliti quattro.

Questi ultimi 15/20 anni sono stati un cocktail lungo quanto le riviere, la città è più vispa impoverita e più consumista, la cultura fa fatica come sempre ma mostra piccoli fermenti diffusi o anche solo ribolliture, le culture stanno nel tempo e nello spazio ma non si può sempre ricordare che a piazza Cairoli c’era la gloriosa libreria Ospe, i tavolini del caffè Irrera o che gli anni sessanta erano “fantastici”, perché tutto quello terminò già quando io ero poco più bambino.

Le capannine fumanti di arrosti e fritture di cibo, ficcate temporaneamente sotto gli alberi di piazza Cairoli hanno fatto esultare o incazzare dividendo promotori cittadini e detrattori.  Certo si possono fare meglio o migliorare ma alla fine hanno un tempo provvisorio.

Le città non sono solo le osservazioni di Goethe e le sindromi di Stendhal ma puzzano anche, scambiano merci odori e cibi, lo fanno negli spazi o edifici specialistici ma anche nelle strade e delle piazze.

Messina per la sua storia accelerata dal sisma fu rifatta su principi igienisti e modelli ingegneristici, tracciata e pensata a tavolino venne offerta alla vita di sfilacciate comunità di abitanti sopravvissuti e immigrati dal circondario e dell’area dello Stretto.

Le teorie urbane, la pianificazione del tempo, l’urgenza della ricostruzione cercarono di comporre una città in cui le piazze centrali si specializzavano tipologicamente secondo alcuni dei repertori delle piazze italiane.   Infatti, la storia italiana indica con tutta evidenza l’importanza della piazza quale centro vitale della città, una specie di palcoscenico dell’identità e del senso di appartenenza di una comunità, che permette la manifestazione quotidiana della collettività e del potere cittadino. La piazza italiana, nel repertorio storico dunque, si propone come un’inesauribile rappresentazione della vita en plein air, una messa in scena “teatrale” concepita per accogliere la folla delle feste, dei mercati, delle celebrazioni religiose.

I tre modelli consueti della tradizione italiana sono la piazza della cattedrale, la piazza civica, la piazza del mercato. Nelle stratificazioni urbane progressive sono  spesso intrecciate e si sovrappongono. Da queste premesse, e dalle innumerevoli variazioni che vengono a generarsi a seconda delle diverse situazioni culturali, geografiche, storiche, sono nati i sistemi di piazze, tipici dei centri italiani, in cui l’intersecarsi di ruoli e funzioni ha dato vita a “combinazioni” di spazi urbani originali e differenziati. A Messina la nascita contemporanea della nuova città pianificata non diede lo spazio e il tempo della combinazione. Il luogo combinatorio per eccellenza di funzioni, classi sociali, attività del lavoro e del potere economico cosi come dell’immagine cioè il porto e la sua palazzata diventarono altro. Il mercato della pescheria in metallo posizionato sulle banchine del porto e riproposto anche dopo il terremoto venne definitivamente sbaraccato ed espulso dalla città dopo essere stato centrato dalle bombe del 1943. Per tutto il dopoguerra, i gloriosi anni sessanta e poi gli anni settanta ottanta e novanta,  sono le attività canoniche dello scambio e dei mercati che come denti cariati vengono estratti dal corpo della città, dismessi o demoliti quelli rionali degli anni trenta, “sanificate” le strade mercato intorno a villa Dante o quelle del mercato di San Paolino su via Santa Cecilia; espulsi i mercati, le attività collaterali delle botteghe promiscue non decollano anzi non trovano nuove identità. Programmaticamente secondo un banale prontuario igienista tutti i mercati tematici, quotidiani o periodici saranno posizionati ai margini urbani non diventando né motori della riqualificazione delle periferie disperate, né stimolatori  per il cuore stanco del centro città.  Nel frattempo nuovi modelli economici e tipologici spostavano i flussi commerciali nei Mall center extra urbani in salsa locale.

A volte l’igienismo senza pensiero uccide i luoghi e l’economia, costruendo immagini senza corpo.

Nella storia le fiere e i mercati nacquero dall’aggregazione di venditori ambulanti che, a scadenze prefissate del calendario civile o religioso, si riunivano per offrire i loro prodotti. È l’aggregazione sociale e commerciale che mette in relazione dinamiche urbane e prove di convivenza, è il disporsi delle attività nello spazio che narra la specificità delle città. L’espulsione delle forme organizzate di mercato genera altre forme di accaparramento individuale di marciapiedi angoli di strada e luoghi visibili per le attività di scambio. Già perchè il cibo di strada, “veristicamente popolare”, quando è nelle strade e non in rassegna ordinata o informalmente contrattata, spesso prende spazi, ingloba semafori e interi marciapiedi, sposta l’economia sulla forza o prepotenza individuale e di uso esclusivo dello spazio. Invece di sviare il discorso, sono le strade, le piazze e gli spazi urbani i beni comuni materiali a cui sovrapporre prove di comunità e di usi non esclusivi,  ciclici, innovativi ma anche transitoriamente banali.maschere-topolino-815x420

Messina, gli incendi e la geografia della Città

“L’albero di prima è morto crocifisso, è stato deposto e sepolto dal fuoco, quest’albero come nel quadro di Sibiu di Antonello da Messina è un palo teso e un tizzone spento, quest’albero come nel quadro di Anversa di Antonello è un legno spoglio per issare carne”

Gli incendi hanno fatto parlare, gridare, scrivere e accusare. Siamo tutti pianificatori ambientali, conosciamo le gestioni forestali e i programmi regionali, discutiamo sulle reti natura 2000, le “zetapiesse”, i soprassuoli, i finanziamenti europei, i piani di azione locale, i Gal.

Esperti in protezione civile, invochiamo la protezione militare, arrivano i nostri non arriva nessuno, c’ero e ho visto, non c’era nessuno, eravamo abbandonati, allarme, panic no panic.  La sicurezza, gli eroi, i lavoratori, l’economia del rischio, gli striscioni, la paura, il coro da stadio, i colli sono friabili, le conifere ardono, il sottobosco non è controllato, ci sono le mafie e poi pure l’indifferenza. L’infinito carattere distruttivo e la volontà di morte.

Ogni incendio appiccato rimbalzava come l’eco di vallone in vallone, appiccato su a Calamona, risuonava all’Annunziata, correva a Giostra e poi a San Michele, poi ancora eco a Campo Italia, Casazza, Portella etc etc.

La geografia della città è stata sulla bocca di tutti, la forma del territorio pure, perché a ben pensarci Messina più di tante altre è una citta geografica, ha proprio forme, strutture e sistemi di colli, bacini fluviali, valli, mari, pizzi e calanchi, ma anche diffusi sistemi insediativi di piano, di colle e di pizzo che sembrano un atlante didattico. Sappiamo pure che nel pensare comune la geografia è per antonomasia una disciplina scolastica neppure tanto considerata. Fuori da scuola la geografia è vissuta come un’illusione, un gioco, una vacanza, una scienza mnemonica e fantasiosa. Eppure dall’intuizione di un libro di Giuseppe Dematteis sappiamo che la geografia è anche una metafora che ci consente parlando di una cosa di intenderne anche altre, senza geografia è difficile parlare degli umani. Ogni incendio si è sviluppato in una stanza territoriale diversa, perché ogni fiumara e i vari compluvi costruiscono a Messina stanze diverse, ogni valle ha i suoi villaggi che raramente hanno percezione e conoscenza degli altri villaggi. Affacciarsi da una finestra o da un’altra può far vedere fiamme infernali, flebili fumi o pacifici panorami.

La citta geografica è questa, con la sua forma diversa non riassumibile se non dall’alto dei voli o in parte dallo Stretto di mare, lo Stretto luogo fisico che permette di vedere, allineare e fare contare tutti insieme i fuochi degli incendi sui valloni, i compluvi e sui pizzi; vederli di qua e di là delle due coste come in un’impazzita Fata Morgana incendiaria. Questa forma variegata della nostra città geografica è fatta di stanze territoriali, spesso non comunicanti; stanze non comunicanti tra di loro che insieme alle terribili e storiche calamità,  forse spiegano un po’ la difficoltà antropologica di fare comunità anche di fronte alle difficoltà, solo l’eco comunica qualcosa ma lo fa in maniera alterata. Non ho certezza che la geografia di Messina rimarrà sulla bocca di tutti anche dopo aver spento gli incendi, eppure penso che la forma del territorio e delle città andrebbe conosciuta da tutti, somministrata in vari modi, un po’ come, l’acqua, l’aria, il cibo e l’amore. Ma anche  raccontata civilmente e scientificamente tutti i giorni della vita. Per questo non sapendo nulla di botanica provo  a raccontare un’immagine postuma di un albero defunto per il fuoco:

– L’estate brucia e le curve mi fanno risalire i colli sopra la città. L’estate brucia e porta via quello che non vorrei. Sono al trivio della portella Castanea, lì tra la risalita, la continuazione e la svolta, sta conficcato in terra un palo nero con alcune braccia a forcella; l’albero di prima è morto crocifisso, è stato deposto e sepolto dal fuoco, quest’albero come nel quadro di Sibiu di Antonello da Messina è un palo teso e un tizzone spento, quest’albero come nel quadro di Anversa di Antonello è un legno spoglio per issare carne.

Quello che vedo è solo questo ramo combusto, nero come pece, morto come un morto, e da cui sono svaporate le foglie ed è stata risucchiata la linfa.

Lo sfondo azzurro, impietoso per la sua bellezza, accompagna la figura, la porta via dalla natura e la sposta nell’accidentale luogo delle cose artificiali: tra cielo e terra si è infilzato un palo nero, senza nessun corpo santo e ladrone fissato e legato, ma con uno strano miracolo intorno alle sue braccia monche che prima erano vegete.

La chioma rinata per astrazione si aggrappa ai rami in una nuvola bianca lattiginosa e densa, apparizione risorta tra cielo e terra.

 Il tizzone nero ha corpi umani contumaci e una nuova improvvisa surrealtà.

 Il tizzone è solo al trivio, tra la risalita, la continuazione e la svolta; non c’è più linfa ma la sua nuova chioma di nuvole è labile e poetica e allude a una vaga possibilità.

L’infinito carattere distruttivo degli uomini si accompagna anche a un infinito carattere costruttivo degli uomini, quello che inventa anche nuove identità, quello che 100 e più anni fa anni immaginò un progetto di lunga durata progettando la foresta di Camaro o immaginò la scelta monotematica delle alberature conifere dei colli piantumando uno ad uno i piccoli alberelli. Chi progettò l’idraulica e la botanica dei colli, e tra questi Leone Savoja e Camillo Puglisi Allegra e poi gli anonimi forestali,  dalla fine dell’ottocento fino agli anni trenta, fece un progetto di lunga durata, un progetto senza la spinta narcisistica del risultato immediato e della soddisfazione della costruzione compiuta. Adesso che il risultato c’era, di nuovo in parte occorre ricominciare. IMG_4064

Così vicino così lontano, vedere la città

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Di tutte le arti quella di saper vedere è la più difficile” (E. De Goncourt)

Che siano le foto della tua vita privata, della vita sociale o dei luoghi del cuore, del paesaggio o della tua città, non si fa altro che sgranocchiare immagini, spesso le ingoiamo senza masticarle tra un beep e un Wup, di sapore non ne vogliamo proprio sentire cosi che le sputiamo prima di vomitarle. Le cause? Spesso siamo al rigetto per troppi contatti social,  troppa messaggistica, troppa simultaneità;  troppe figurazioni per semplificare qualsiasi forma di astrazione che potrebbe far sforzare il pensiero e provocare l’allenamento alla concentrazione;  la vita visiva  ogni giorno è rimpinzata di foto più di un rotocalco per bulimici,  una foto come premessa, una come tesi, una a commento e poi una come nota a piè di pagina, una come smentita e poi una a contro smentita, e poi  e poi… ancora e ancora…

Le foto della città fisica, magari della tua, sono strane, ossessive ripetizioni di cartoline, restituzione del già visto, ricercati glamour per collezionare like, poi qualche volta le foto diventano meravigliosa trivellazione di risorse dai pozzi abbandonati o ricostruzioni sorprendenti dell’invisibile per rinnamorarsi dei luoghi.

Le città hanno sempre avuto bisogno non solo della loro vita interiore, ma anche di qualcuno che le raccontasse in giro, le dipingesse, le descrivesse ai forestieri e spesso anche agli stessi abitanti così pressati dalla vita e dalla morte da essere costretti ad attraversale ed usarle senza neanche poterle guardare da fuori, oppure cosi abituati a guardarle ogni giorno distrattamente da non saperle vedere.

Alcune semplici immagini zenitali del nostro territorio e della nostra città poco tempo fa hanno destato meraviglia, foto fatte da droni senza anima e funzionali alla tecnica del racconto delle gare ciclistiche o a quelle del racconto della sorveglianza di polizia del G7, hanno toccato le nostre latitudini e le corde del nostro immaginario.

Eppure da anni smanettiamo senza sosta su Google maps o su Google Earth; zoomiamo sugli smartphone e ci alziamo in volo dal quel cacchio di scrivania dell’ufficio; planiamo su viali e i boulevards di posti vicini e lontani cercando quell’impossibile “non luogo” dove si svolgerà quella fantastica festa del sabato; o cerchiamo la casa dell’amichetta di tua figlia che ha deciso per scelta di famiglia di costruirsi la casa in quel famoso poggio dove pure il famoso “signoruzzu ha perso le scarpe”.  Tecnologici e tattili planiamo e navighiamo, potenti più di Batman e Tim Burton però poi precipitiamo sulle terrazze di Lilla e Nino, finendo pure dentro la lettiera del loro gatto Sciollero, vediamo con il Gps pure i loro slip e le canottiere appese ma ogni volta che vediamo una bella ripresa TV o una foto di chi vuole raccontare la nostra città ci meravigliamo e diciamo, Mizzica e questo dov’è?” 

Niente, tutti questi anni di overdose d’immagini sono stati inutili, più il territorio e a portata di click meno capiamo dove ci stiamo infilando e se stiamo vedendo, più zoomiamo e meno guardiamo. Quindi benvenute immagini che hanno fatto scoprire che piazza Castronovo è tonda e che il PRG post terremoto ha fatto costruire gran parte della città a scacchiera , e ben venga che si siano scoperte  le curve sinuose delle coste del messinese o la linea mossa e accidentata delle rocce joniche e le geometrie sontuosa del Teatro greco romano di Taormina.

Ma insieme alla visione fatta dal drone, quella lontana che restituisce una sintesi quasi sempre bellissima, c’è n’è un’altra, la visione ravvicinata che dettaglia la ricchezza dei particolari, che inganna l’occhio e la mente. È bello il paesaggio urbano e territoriale della città dello Stretto, belle anche tante architetture viste da vicinissimo: la ricchezza dei materiali, le forme urbane del decoro dei gessi e cementi, delle figure apotropaiche piazzate sulle finestre e i portoni. La visione ravvicinata ci fa vedere gli stacchi volumetrici nei dettagli di alcuni buoni maestri dell’architettura passati da qui per ricostruire la città azzerata;  ci permette di osservare  i piacevoli  i tentativi del professionismo locale di applicare le arti all’edilizia condominiale del boom messinese degli anni 50 e 60 fino agli albori del 70; da vicino appare pure  chiara la trama e il rigore delle textures delle prime forme edilizie a basso costo degli istituti per l’edilizia popolare o  degli elementi materici di alcune strade.

Poi però ci sono le visioni intermedie, le più crude: quelle spesso dicono le verità;  altro che piercing urbani e tatuaggi, spesso è roba da splatters . La città non è una veduta e neanche un vetrino al microscopio, funziona ancora benissimo dalla grande distanza, funziona egregiamente a distanza ravvicinata, perchè l’occhio può selezionare; ma poi, perché non funziona alla distanza intermedia? Quella dello sguardo delle relazioni tra parti e quindi delle relazioni della vita; da lontano siamo tutti belli e tutti amici, da vicino forse ci amiamo o ci scanniamo, ma alla distanza intermedia vediamo ferite cucite alla meno peggio, coltellate reiterate, polveroni e macerie nascoste sotto il tappeto, decapitazioni e mutilazioni, innesti cyborg, poltiglie urbane, impianti tecnologici e domestici vomitati sui balconi e sulle facciate, piazze sfigurate, “tagliate di faccia”,  protesi malmesse e sprangate squadriste su corpi urbani già deboli.

Le foto della città raramente annunciano un tempo, più spesso lo arrestano, sciogliendolo nella nostalgia del com’era, oppure sciogliendolo in un acido del presente.

Occhi ne abbiamo? Ma per usarli dobbiamo vedere e  quindi pensare, insomma serve allenamento a vedere e anche a immaginare. La visione è la forma di conoscenza principale della nostra cultura, ma la distanza e la scala possono cambiare il senso  delle cose. Nel film Blow up di Antonioni  l’ingrandimento fotografico è un metodo e farà scoprire a Thomas un delitto, insomma anche qui tra visioni urbane cosi vicine o cosi lontane , ingrandendo le foto……..si scopre un delitto come in “Blow-up”, spesso è il delitto del paesaggio o delle deboli tracce della qualità  urbana.

Socrate insegnava a Teeteto che non vediamo perché abbiamo gli occhi, ma abbiamo gli occhi “per vedere”,  per narrare e pensare  la città ricominciamo a fare delle verifiche per vedere alla giusta distanza.

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La lunga gestazione,per la (quasi) apertura al pubblico, del nuovo Museo di Messina è durata trent’anni tondi!
Trent’ anni a cui vanno sommati anche tutti gli anni che sono passati dalla data del sisma del 1908.
Dopo il sisma il museo era uno di quegli edifici e istituzioni ritenuti prioritari e inseriti tra i primi cinque da costruire, nel 1913 fu pubblicizzato il progetto di massima attraverso le neoclassiche prospettive nel progetto del Museo Nazionale di Francesco Valenti, dopo l’altisonanza il museo poi fu arrangiato e ridimensionato al solo edificio della ex Filanda negli anni 50. Per anni e anni ancora una serie di restauri, allestimenti, direttori, progettisti, tutto questo a cavallo di un secolo.
Negli anni ‘70 il Ministero dei Beni Culturali incarica il maestro dell’architettura Carlo Scarpa coadiuvato da Roberto Calandra, con l’idea di ri-cucire finalmente le ferite del sisma attraverso un progetto di portata nazionale.
I passaggi successivi di competenze d’indirizzo e gestione dei beni culturali alla Regione Sicilia , fecero arrestare quel progetto .
Un appalto concorso affidò le nuove sorti del museo di Messina a nuovi progettisti che interpretarono secondo le loro capacità il tema definendo forma insediata e volumi , poi ancora progetti successivi per riempire di contenuti i volumi vuoti, tanti linguaggi e allestimenti e un ventaglio di progetti d’esterni e d’interni separati alla nascita.

In questo tempo lungo un secolo, in questo tempo speso o dissipato quel museo oggi c’è; il museo racconto della città è nato fuori città, su un margine esterno a causa dell’emergenza post sisma e con quel carattere di provvisorietà diventata poi permanente.
Nel frattempo che si costruiva il nuovo Museo sulla spianata del monastero di San Salvatore dei Greci con la vecchia filanda trasformata in museo, tutt’intorno la città ha fatto la sua vita: ha demolito, costruito, inventato, speculato, cancellato, deturpato, ipotizzato, cementato.
Quel margine urbano esterno importante ma non centrale, fuori dal tessuto consolidato, vivo ma anche incerto, ha assunto forma e polarità attraverso le funzioni urbane che si sono via via insediate, (ospedale, sbarchi e caselli del traghettamento privato, attività ludiche, parchi divertimenti e circoli sportivi, residenze, scorie costruttive, capolinea del tram, parcheggi).
Il tema mai affrontato è oggi quello di aprire la città al suo museo e quindi non solo di aprire il museo alla città. Le città si aprono alle funzioni specifiche degli edifici attraverso il progetto urbano, quello che legge, ordina, connette o tiene insieme il congruente e l’incongruente, prodotto dalla vita delle città.
Il museo ha intorno e all’esterno del suo recinto un’area pregiata ma disarticolata, una costa ingoiata dalle attività di scarico e carico delle navi traghetto private, un decadente luna park da paesello, dei muri invalicabili con dentro campi da tennis e spiaggia riservata; poi un giardino pubblico separato e costruito sulle macerie della guerra e ancora un parcheggio vista mare. tanti i condomini esclusivi degli anni settanta, quelli popolari subito dietro, i villaggi di costa, (il Paradiso, la Pace e la Contemplazione) l’ospedale abbandonato, accanto la traccia potente della fiumara dell’Annunziata. Il tutto tenuto insieme dalla meraviglia del paesaggio dello Stretto di Messina.
Per qualsiasi progettista quel posto è una miniera inesplorata di progetti urbani va solo immaginato un percorso di progetto per aprire non solo un museo ma aprire anche la sua città, sarà allora che le opere del museo rimanderanno in circolo non solo il passato e le antiche vestigia ma un’idea di città cosmopolita. A quel punto forse sarà il museo che dirà: Apriti Città !
#aprititesta #apritisguardo #apriticittá #apritimuseo

L’estate è un lampo.

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Comincia il mese settembrino e così ci diamo una calmata. Ho vissuto giorni di guerra tra raffiche di karaoke e strabilianti esplosioni per spettacoli pirotecnici, ho visto sciamare i corpi fatti, sfatti e rifatti nelle prove  intensive di cortei non autorizzati sul percorso bar-piazza e spiaggia, in strada ballavano oscillando pure i santi e le madonne sudate per i manti damascati  e il carico di gioielli e di oro,  c’erano fracassi di ottoni e grancasse e bombe  musicali sparate dai cassoni delle autobimbominkia regalate da genitoriAminkia. Fluivano le colate inarrestabili di gelati da passeggio, passavano i piedi nudi  esibiti tra lacci , fibbie e plastiche glitterate e poi crescevano giorno per giorno quei tatuaggi con intere decorazioni floreali -zoologiche che partendo dal braccio raggiungono il deltoide, ricascano sul trapezio e il grande pettorale e poi seminano foglie, serpi e tutte le qualità entomologiche su cosce, dietro le orecchie e sugli inguini e i polsi; vedevo strisciare  sui corpi  gli scorpioni incastonandosi, svolazzare le mosche e le coccinelle, e poi le farfalline scivolavano nel solco intergluteo o chissà persino in gusci più nascosti.

Ogni giorno, di notte, esplodeva il  cielo dell’Illimite peloro , di qua o di là nella costa dello Stretto, un botto un lampo o una pioggia di raggi luminosi ricordava l’estroflessione invadente dell’estate.

Esplosioni fulminanti o di “spaccata”, combustioni animate dalla chimica che non ho mai imparato al liceo e dal colore dei minerali, quei lampi colorati gridano sgargianti dei componenti  che sembrano invettive , Cloruro di rame, Stronzio e Bario!

Poi c’è l’arte che li fa più belli e la tecnica che li mette in sequenza e giù botte e scoppietti, stelle, pioggie e colpi sicuri, bombe lunghe e controbombe.

Il pubblico sulla spiaggia di Cariddi assiste attonito e ricorda sempre che la tv ci ha mostrato tutte le ultime guerre come degli spettacolari war games in cui il bagliore accecava i vivi non facendo vedere i morti.

“Chi sogna può muovere le montagne” – “o anche i mari”

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Una barca-porta è un oggetto ibrido. E’ una diga di svuotamento e allagamento che chiude i bacini di carenaggio facendo da tappo al mare

Messa lì dove l’ho trovata, sembrava un reperto, una barchetta  di un gioco archeologico seppure alla dimensione dei Titani.

– Tutta l’Acqua fuori-  gridavano, aspettando che il mare uscisse e si svuotasse la stanza; la stanza si svuotò e apparve la stazza di una nave:  all’asciutto finalmente puoi vedere tutto e tutto appare greve e sporco incombendo sulle figure piccole degli umani.

Manine, Puntini in movimento, lamette, chiodini e martellini, scintille minuscole, tutto cambia dimensione nell’asciutto e diminuisce senza l’obiettivo fotografico.

Paesaggi metallici pieni di scarti, pesi, ruggini e vernici contro un cielo azzurro, eoltre la barca-porta c’è un mare blu che spinge dal basso verso l’alto e dà testate spumeggianti.

La barca-porta di riserva  appoggiata sulle pareti è tanto possente quanto inutile, appare come un modello quasi antico o solo un gioco recuperato da uno scavo, è un’arca o una macchina scenica e sembra che stiano per cominciare  le naumachie.

Avrei voluto aspettare l’arrivo del mare e il riempimento della stanza, ma questo era impossibile, decisi di fare il Fitzcarraldo,  presi la barca- porta e attraversai la lingua di terra portandola in mare aperto, di lì a poco il mare si svuotò: milioni di pesci e conchiglie aderenti alle controventature, alghe spiaccicate alle pareti e pendenti dalle saldature, le dimensioni erano ancora cambiate in quel wasteland marino. In groppa alla porta aprimmo le chiuse, il mare defluì dall’alltra parte con grandi scrosci d’acqua, il mare si era mosso; tutti noi invece no.

i passanti scomparsi

 

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“…Insomma, gli spazi si sono moltiplicati, spezzettati, diversificati. Ce ne sono oggi di ogni misura e di ogni specie, per ogni uso e per ogni funzione. Vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male.”

Sia che si parli di città e quartieri, di aree marginali, periferie o centri storici o anche persino di condomini, o anche villaggi con villette unifamiliari e villone extralarge, la frasetta del buon Perec usata all’inizio, me la porto sempre in mente.

Ti facevano studiare che il senso dei luoghi aveva ragion d’essere proprio perchè avveniva un miracolo insediativo: quello che riconosceva e attribuiva a qualche singola parte di quel luogo un valore comune, un lampo dell’essere e quindi dell’habere, un abitare legato alla relazione insperata fra diversi, quella che permetterebbe fuori dall’abitazione-dimora di sentirsi parte abitante che può deporre le protezioni e girarsi persino di spalle.

Nella moltiplicazione degli spazi contemporanei la comunanza si restringe al caso e all’occasione; e questo è direttamente proporzionale alla velocità di attraversamento e all’instabilità permanente.

La moltiplicazione delle esperienze possibili in una stessa giornata e in uno stesso luogo produce perimetri, luoghi di stabilità apparente, a volte cluster. Sulle soglie di questi perimetri si ricostruisce il terreno comune, corridoi che attraversano o che si modellano sui confini dilatando le soglie e divenendo stanze.

Ogni passaggio tra uno spazio e l’altro è la vita. Aprendo delicatamente o forzando le porte si mette in moto una possibilità, malgrado la convivenza separata o quella prigioniera.

Quante stanze ha questa casa? mi viene da dire,

“Una per ogni voce” mi rispondo a mente,

“E quanti salotti ha?”

“Tanti quanti i culi che ci si siederanno !”

“Quante lampade e quanti letti, quanti tavoli e quanti quadri?”

“Troppi gli dissi, “

e aggiunsi:

“Qui le cose hanno vita propria, galleggiano senza le persone scomparse tutte nei vari traslochi.”

il magnete e la bomba (Dialogo sul costruire)

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“Costruire una linea provvisoria tra due mari è un esercizio di decisione, ti dico! “

“Mah, mi semba che è una decisione labile quella che pone un dentro e un fuori proprio lì! Disse lui, “è una specie di contraddizione stabile nello spazio aperto.“

Cercai le parole. – “Mi spiego: un muro di legno fatto così ,orizzonta i passi, inventa righe su cui poggiare l’aria vorticosa , le aspre montagne, e i riccioli  variabili delle onde, è come un piano inciso dagli occhi che guardano da entrambe le parti della staccionata.”

“Ma perché costruisci? Cosa ti manca?” disse lui quasi preoccupato dalla mia malattia di costruire.

“Non mi manca niente, ho tutto davanti, ma poi quel tutto è troppo e quindi cerco di riordinarlo su una pagina,” mentre dicevo quelle cose era come ragionare a voce alta, “Costruendo quel muro ho davanti  come una specie di pagina a righe, astratta come una linea analitica del ragionamento.Fuori dalla pagina è rimasta tutta la meraviglia delle nature inconciliabili, dei venti violenti e dei movimenti delle correnti.”

“Ma è tutto già pieno, non credi che togliere sia meglio di mettere?” mi disse preoccupato;

Guardandomi con cortesia mi disse quasi per convincermi :“Dai , togli qualcosa e vediamo che succede.”

“Guarda che togliere è il mio pane, ho tolto tutta quell’aria che circolava, l’ho sistemata appena un po’, e devo dirti che mi sembra già più in ordine. Che ne so, ho come fatto una riga sulla sabbia.” Mentre spiegavo pensavo, ma cercavo le parole, volevo essere il più chiaro possibile :

“E’ come la riga fatta ai capelli quando sei bambino prima di uscire e prepararsi ad un incontro con persone serie, la riga ti riordina un po’;”

Forse  mi avrà segnato quella scriminatura dei capelli netta e immancabile che mi faceva mio padre prima di uscire, ci pensavo quasi sentendo il passaggio chiaro sul cranio con il pettine d’osso in aspersione d’acqua miracolosa, passavano i denti stretti dividendo le ciocche lunghe e portandole  a sinistra , mentre a destra restava il corto, ma era un ordine provvisorio come questo muro temporaneo sulla sabbia, dopo arrivava la vita e portava lo scompiglio. 

“Tu parli di righe, ma a me piacciono i ghirigori imprecisi della natura, quelli che non puoi fermare con le mani e che nessuno riesce a costruire, qualcuno ci ha provato, li ha messi sulle case ma alla fine case erano, li ha messi su trochi di pietra ma alla fine erano solo colonne, li ha ripetuti in tralci contorti sotto i balconi ma non erano lievi come i rami.” Ripeteva una frase, con un tono serio quasi per convincermi. “È tutto già fatto, non ti offendere ma le righe non mi piacciono e neanche mi servono.”

“Hai ragione ma anche nessuna ragione: una calligrafia dello spazio vive pure senza le pagine a righe, si dispone a piacimento, si sovrappone senza ordine e ne ha una sua ragione. Una pagina come questa è solo un campo in cui far fermare degli occhi e trovare qualche misura. Lì dietro passano le storie e i corpi ,  puoi anche vederli, solamente che non sono storie dichiarate, ci sono tanti sottointesi e anche qualche equivoco, poi arrivano anche i venti  lì dietro su entrambe le facce, da nord  si ammassa il maestrale, mentre da sudest si stocca lo scirocco.Sul muro inciso dalle righe, i venti vivono a lamine e si mescolano a strati.”

“Si va bene, tu spieghi e sai cosa dire,  ma a me piace essere libero, non mi piace essere amministrato da un muro e da una protezione , io voglio rimanere immerso in quel che c’è, mi piace spostarmi e non mettere fondamenta.”

“L’immersione è un’esperienza multisensoriale, vive di equilibrio e si appoggia a dei limiti, si intrufola in canali e poi trova improvvisi slanci in luoghi rarefatti, la densità fa faticare e i passi sono più piccoli, ma poi per sempio ti trovi nel bel mezzo di un posto ampio e… sai ,tu dici che vuoi essere libero di spostarti dove vuoi, ma nei posti  molto aperti succedono cose strane, le persone si  riavvicinano per non perdersi, si densificano intorno alle ombre, si appoggiano alle superfici, si chiedono e ti chiedono dove stare.”Cercavo di spiegare l’esigenza delle costruzioni, quasi la richiesta  naturale all’edificazione, ma sapevo che non lo convincevo e continuavo: “La paura del vuoto la puoi vedere nei grandi spazi urbani, nei campi distesi delle pianure, nei grandi spazi contenitori senza folla. Anche qui dove siamo adesso, puoi non aver nulla e stare bene ma puoi anche trovarci delle cose e meravigliarti che non hanno tolto nulla alla bellezza. Lo so costruire sembra necessario ma a volte è anche davvero superfluo, lo vuoi e ti respinge.” Lo dicevo e fra me pensavo : è così da sempre! e  da sempre ci saranno stati dialoghi faticosi come questo.

Lui perentorio : “Ma nella bella natura, costruire mi respinge sempre, di questo  sono sicuro!”

“ Nella natura accadono tante cose , nessuna natura è immobile, persino quella pietrosa e secca subisce variazioni minime visibili solo a chi vuole vederle, sono modificazioni per dilavamenti delle piogge, per i venti  e  per gli eventi tellurici per esempio.”

Prendevo fiato mentre l’aria passava dalle righe del muro di legno: aria fresca da nord e calda da sud, cercavo, parlandone e dialogando con lui una superiore giustificazione all’atto originario del costruire.

“Sai  a volte, la bella natura, come la chiami tu, si appoggia anche alle costruzioni, se riescono nel loro compito e se sanno cosa fare, quelle costruzioni sono un dispositivo potente, una doppia arma in mano alla natura e in mano agli uomini,  sono magneti e bombe esplosive , attirano vita, parole, corpi e sguardi, e  tutti gli strati di natura presenti in quei luoghi,  poi d’improvviso dopo avere accumulato l’energia diventano bombe facendo esplodere i  desideri, si spargono intorno e ritrovano la natura.”

Occupa Waterfront

occupy wf 1L’Occupazione del Waterfront è un’attività ciclopica , un’attività memoriale di vite e costruzioni.

Sulle linee delle coste urbane avviene di tutto, anche quello che si rilascia lentamente nel tempo. Un rilascio controllato di sostanza e apparenza, un’ immissione forsennata per  una futura sottrazione. Tutto ciò che accade spinge alla saturazione di ogni spazio di libertà.

La densità però è anche un sintomo di convenienza e di tensione della vicinanza, di un corpo a corpo tra le affermazioni e le possibilità.

La spinta da terra è costante, mentre da mare  l’acqua erode e risacca.

Queste pietre artificiali sembrano messe li per un raduno di Ciclopi, un raduno vasto , grande come un territorio, mentre lungo le coste urbane accade di peggio, raduni lillipuziani e accaparramenti molecolari. Le storie d’uso delle parti comuni nelle città , siano queste interne o siano esterne, contengono lunghi racconti ma anche prepotenze, sfide o duelli.

Il racconto territoriale riassume in una sola linea di costa un tratto lungo molti chilometri che procede per rette e segmenti, e poi si insinua in rade e si affaccia in promontori, si sfalda sabbioso in sbocchi incerti di fiumare intubate, si accumula in promontori instabili di varianti infinite di sfrabbricidi . Quel racconto disegnato dalla linea delle cartografie è come un’operazione sanitaria di sterilizzazione dei fattori epidemici. La città che ha tanti corpi, quando fa notte e tutto è scuro, è ricompresa dentro un unico grande corpo, certo collerico ma addormentato nello stesso respiro.  Quel corpo suda e ansima , sogna o grida per gli incubi, si accuccia sotto le certezze e si scopre dai desideri. Ogni parte lontanissima di città sulla costa, è corpo diverso ma anche unico corpo disegnato dal suo contorno di costa, cosicchè anche quando una di queste diverse parti muore, il grande corpo comune continua  a vivere. L’Occupy Waterfront è una partita su dei massi ciclopici e il suo peggior nemico è sempre Nessuno.

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Il diario di una casa costruita

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Ho trovato il diario di un fabbricato: è fatto da due taccuini scritti a mano con una grafia precisa, corsiva come la mano inclinata che è passata attenta sui quadretti e le righe della carta sottile. Il diario è una storia di un lavoro e della vita di tante persone,di chi misura, di chi scava, di chi porta, di chi sa fare e di chi sa solo faticare, di chi pensa e di chi suda, di chi accompagna e persino di chi lascia. E’ una storia di un terreno e del suo cambiamento, una storia unica e ripetibile all’infinito, una storia che va fissata sulla carta per poterla variare mille volte ancora, tanto comune ma così singolare da essere stata scritta per quella sola casa.

È una biografia di una costruzione di quasi novant’anni fa: non è un progetto disegnato ma una narrazione tecnica di sassi pietre e sabbie, un elenco dei carri occorrenti e delle bisacce piene di cose, una lista di posti e località perdute o trasformate.

Come ogni tecnica lontana perdendo attualità e necessità riconquista la poesia lieve della distanza. Quanti uomini e quanti viaggi, quanti muli e quanti carri hanno camminato risalendo dal profondo dei torrenti e portato le sabbie fino alla marina, quante mani si sono passate e scambiate le cose e hanno fatto proprio tutte le cose che andavano fatte. Sono descritte tutte le giornate che sono servite e poi tutte le piogge arrivate, gli addii e gli arrivi, quanti uomini e quanti passanti, quanti soldi spesi e quanti pagati, quanti sbagli fatti e quante ripetizioni necessarie.

I muri della casa si sono alzati e per ogni mattone so tutto: conosco la fornace, il giorno di cottura, so quanti blocchetti di argilla sono stati portati e quanti ne sono stati alzati per ogni parete, conosco la storia e il tempo, ma non so nulla di cosa si sono detti gli uomini  che se li passavano. Il loro parlare sfuggì alla tecnica e al quadernetto, cosi non saprò mai se tra le file di mattoni e i lenti impasti manuali quei manovali e quei mastri si dissero qualcosa di importante, se rivelarono un loro segreto o uno indicibile della casa o magari un crimine avvenuto durante quei viaggi lungo le fiumare, se persero tempo raccontandosi la loro vita lontana dal lavoro, se odiarono il direttore di quei lavori che annotava tutto mentre loro invece faticavano.

Nel diario ho l’elenco minuzioso dei tipi di legname occorrente, ho quello dei laterizi e di tutto quello che va cercato in natura per poi essere trasformato. E’ come una storia di cacciatori e di coltivatori di materie costruibili, una storia di luoghi esclusivi ed originari, i luoghi migliori in cui trovi l’acqua buona e la terra ottima, i luoghi migliori da cui prelevare le sabbie e la calce e raccogliere i tronchi stagionati degli alberi più forti. Le sabbie di fiume sono raccontate per poi ritrovarle e per mescolarle, sono raccontate per indicare la ricetta e non sbagliare nulla, sono il diario per chi lo ritroverà e lo leggerà.

Un diario così è la vita perfetta e faticosa di un desiderio che diventa una casa, non ha sbavature e non sembra contenere nulla di personale, il diario finisce con tutto quello che è accaduto e con le cose occorrenti alla casa dalla sua nascita alla crescita fino alla conclusione , conosce i padroni, le monete spese e tutti gli uomini che sono stati necessari. Il diario tecnico di un fabbricato è un testo bellissimo, pieno di una vita precedente, si arresta sul compiuto e da lì ricomincia.